Occhio alle clausole nascoste nei contratti delle compagnie hi-tech
La vita di Kanokporn Tangsuan, medico alla prestigiosa New York University, è stata stroncata il 5 ottobre 2023 dopo aver mangiato al ristorante Raglan Road Irish Pub di Disney Springs, uno dei «distretti» di cui è formato il Walt Disney World Village nei pressi di Orlando, Florida. Tangsuan soffriva di gravi allergie a latticini e noci, e aveva informato più volte il personale del ristorante (non gestito da Disney), ricevendo molteplici rassicurazioni. Eppure, subito dopo aver mangiato, ha avuto una reazione allergica fatale ed è deceduta in ospedale Il marito Jeffrey Piccolo ha avviato una causa contro Disney, accusando il ristorante di non aver rispettato le misure necessarie per evitare contaminazioni alimentari, e ha causato uno tsunami i cui riverberi sono arrivati anche nel nostro Paese.
«La controversia legale» spiega Antonio Davide Mastrone, avvocato specializzato in diritto dei consumatori dello studio Marinelli & Partners «ha suscitato particolare attenzione a livello internazionale perché all’inizio Disney ha cercato di far archiviare la causa, sostenendo che Piccolo avesse accettato, attraverso un abbonamento a Disney+ e l’acquisto di biglietti per il parco, di risolvere eventuali dispute tramite arbitrato anziché in tribunale». Di fronte alle critiche, Disney ha deciso in seguito di ritirare la richiesta di arbitrato e permettere che il caso procedesse in tribunale, rispondendo nelle sedi opportune alla richiesta di 50 mila dollari del marito della vittima. «Il caso» aggiunge Mastrone «rivela una prassi non così rara in cui un contraente forte, ovvero la società, impone delle clausole vessatorie nei confronti del consumatore, il cosiddetto contraente debole». Negli anni simili situazioni - ovvero la richiesta di arbitrato extragiudiziale a fronte di un contratto firmato - hanno coinvolto svariate multinazionali.
Per esempio Amazon, che ha inserito clausole simili nei suoi termini di servizio, al fine di obbligare i consumatori a risolvere le dispute tramite arbitrato anziché tramite azioni legali. Altro esempio è quello di Uber e Lyft, una società nel campo dei trasporti che attualmente è presente solo negli Stati Uniti. Entrambe le aziende negli anni hanno utilizzato clausole di arbitrato per limitare le responsabilità legali in caso di incidenti o controversie legate ai servizi di trasporto, complicando per i clienti e i lavoratori la possibilità di ricorrere ai tribunali. Significativo quanto successo a molteplici autisti, impossibilitati a partecipare a una «class action», un’azione giudiziaria collettiva, che li considerava come lavoratori autonomi anziché dipendenti poiché vincolati da clausole di arbitrato obbligatorio, che impedivano loro di perseguire la causa in tribunale. Nel lungo elenco compaiono però anche Apple e iTunes, Google Play, AirBnb, Spotify, Netflix, Infinity e Facebook/Meta.
«Negli anni» nota Mastrone «ho gestito numerosi contenziosi contro la piattaforma ideata da Mark Zuckerberg, perché alcuni utenti si erano visti chiudere l’account senza motivazioni specifiche. E solo dopo una lunga trafila, rivolgendosi direttamente alla sede irlandese con una grande spesa di istruzione della pratica per il cliente, siamo riusciti ad avere risposta». Sempre Facebook - ora Meta - è stato protagonista di un caso emblematico in Europa. Nella fattispecie, nel Regno Unito è stata intentata una class action da 2,3 miliardi di sterline per presunte violazioni delle norme sulla concorrenza, ma anche qui si sono riscontrate difficoltà legate a «commi» di arbitrato volte a complicare l’azione collettiva. Mentre l’autorità irlandese per la protezione dei dati ha imposto una multa di 1,2 miliardi di euro a Meta per trasferimenti illeciti di dati personali verso gli Stati Uniti; il caso, che ha creato grande scalpore, è stato seguito da un’inchiesta che ha messo in luce l’uso di clausole contrattuali standard, ma anche il fatto che le opzioni di ricorso per i consumatori erano limitate dalle clausole di arbitrato.
È chiaro che ci troviamo davanti a una prassi consolidata e che non sempre la vittoria spetti al consumatore. Emblematico quanto accaduto nel 2017, quando un gruppo di utenti ha cercato di promuovere una class action contro Microsoft per un difetto dell’Xbox 360 che causava graffi ai dischi di gioco; la clausola di arbitrato obbligatorio presente nel contratto di licenza per l’uso del software della consolle ha impedito agli acquirenti di procedere con la causa, poiché la clausola obbligava a risolvere qualsiasi controversia tramite arbitrato individuale piuttosto che attraverso un processo collettivo. Limitando così in modo significativo la capacità dei consumatori di ottenere risarcimenti per via giudiziaria.
Ma come tutelarsi? Lo spiegano a Panorama dall’organizzazione Altroconsumo: «Prima di concludere un contratto, di qualsiasi genere e natura, bisogna leggerlo attentamente e comprenderlo in ogni sua parte. Purtroppo non è raro che all’interno della documentazione contrattuale si nascondano clausole non conformi a normativa, vessatorie o comunque penalizzanti per il consumatore. Il Codice del consumo ritiene “vessatorie”, e di conseguenza nulle, le condizioni che, seppur oggetto di trattativa, possano escludere o limitare “la responsabilità del professionista in caso di morte o danno alla persona del consumatore, come risultante di un fatto o un’omissione del professionista”». Sempre secondo Altroconsumo è fondamentale che, qualora il consumatore incappi in un adempimento parziale o totale del contratto, o qualora l’utente non conosca le clausole oggetto di accordo in modo limpido sia possibile procedere all’annullamento del contratto stesso.
In Italia il Codice del consumo predispone poi una serie di tutele per l’utente, di carattere individuale, collettiva e di classe. «Gli strumenti di garanzia individuale sono tutti volti a riequilibrare lo squilibrio normativo, poiché è evidente la condizione di inferiorità del consumatore rispetto al professionista o, nel caso di Disney+ o Netflix, della multinazionale di broadcasting», riflettono gli avvocati Davide Manzo e Valentina Cesarano dello studio legale Manzo di Viareggio.