Von der Leyen affida il fisco a Hoekstra, il commissario “falco” dei Paesi Bassi. Che sono il principale paradiso fiscale della Ue
A gestire politiche di coesione e Pnrr Raffaele Fitto sotto lo stretto controllo del lettone Valdis Dombrovskis che terrà le redini degli Affari economici. A occuparsi di fiscalità il “falco” olandese Wopke Hoekstra, da sempre difensore del massimo rigore sui conti e strenuamente contrario all’emissione di debito comune senza tentennamenti nemmeno durante l’emergenza legata al Covid. Al netto dell’esultanza di Giorgia Meloni per il “protagonismo” dell’Italia, il punto di caduta nelle nomine di Ursula von der Leyen non è rassicurante per il Paese con il secondo debito pubblico più alto dell’Ue. Ma c’è di più. È straniante il fatto che il dossier fisco, per quanto di peso relativo visto che sulle tasse gli Stati membri decidono per sé e ogni modifica alle regole comuni è soggetta alla mannaia dell’unanimità, vada all’ex ministro delle Finanze di quello che è noto per essere il principale paradiso fiscale del Vecchio continente. Dove le multinazionali spostano ogni anno fino a 180 miliardi di dollari di profitti per pagare meno tasse, stando al Global tax evasion report dell’Osservatorio fiscale dell’Ue.
Hoekstra, dallo scorso autunno commissario per il clima in sostituzione di Frans Timmermans, manterrà la stessa competenza nella nuova Commissione nonostante un passato da consulente del gigante petrolifero Shell che già nel 2023 ha innescato la protesta di 50 ong internazionali contro la sua nomina. L’abbinamento con la competenza sul fisco non sorprende visto che l’agenda legata a crescita pulita e obiettivi net-zero è intrecciata a doppio filo con la tassazione delle fonti di energia più inquinanti e la carbon tax alle frontiere introdotta con la riforma dell’Eu Emissions Trading System. Ma anche su quel fronte la scelta del politico olandese, a cui von der Leyen nella lettera di incarico chiede di assicurarsi che l’Ue mantenga “il massimo livello di ambizione nella lotta alle frodi, all’evasione e all’elusione fiscale“, suscita più di una perplessità.
Ex partner di McKinsey, con cui aveva continuato a collaborare anche dopo l’elezione a senatore, Hoekstra ha guidato le Finanze dei Paesi Bassi fino al 2022 nonostante l’inciampo di uno scandalo legato a false accuse di frode nei confronti di migliaia di famiglie destinatarie di aiuti per i figli e il coinvolgimento nell’inchiesta Pandora Papers. Nell’ottobre 2021 i documenti esaminati dall’International Consortium of Investigative Journalists (Icij) hanno rivelato che durante il suo mandato parlamentare aveva acquistato azioni in una società offshore basata nelle Isole Vergini britanniche, senza mai dichiarare l’investimento. Dopo la scoperta ha dichiarato di aver dato i profitti in beneficenza.
Nel frattempo il Paese si è piazzato quarto nella classifica dei paradisi fiscali stilata da Tax Justice network, dietro le stesse Isole Vergini, le Cayman e le Bermuda. Il danno globale causato ogni anno dalle possibilità di “ottimizzazione fiscale” offerte dalla sua legislazione ammonta a 59 miliardi di dollari l’anno, secondo il gruppo di pressione che si batte per un’ampia riforma del sistema fiscale globale. Specularmente, calcola l’Osservatorio fiscale guidato da Gabriel Zucman, il profit shifting – lo spostamento di profitti per beneficiare di quei vantaggi – vale ad Amsterdam il 37% del proprio gettito. Lo stesso Annual report on taxation 2023 della Commissione europea, per quanto molto cauto nell’attribuire a singoli Stati membri la responsabilità di favorire pianificazioni fiscali aggressive ed elusione, nota che “Paesi Bassi e Lussemburgo attirano investimenti diretti esteri pari a quelli ospitati dagli altri 25 Paesi messi insieme”. E aggiunge che il 43% degli investimenti in entrata e il 41% di quelli in uscita passa da società veicolo spesso utilizzate “senza altra giustificazione economica se non ridurre artificialmente il carico fiscale di un’azienda”.
È con questo background che il 48enne di Bennekom, 40 chilometri da Utrecht, coordinerà l’agenda fiscale dell’Ue che vede in cima l’attuazione della già depotenziata riforma a due pilastri della tassazione delle multinazionali negoziata in sede Ocse, il cui primo pilastro resta lettera morta, e l’adozione della direttiva Befit (Business in Europe: Framework For Income Taxation) proposta dalla Commissione lo scorso anno. Ennesimo tentativo – ci si prova da metà anni Settanta, quando gli Stati membri erano nove – di stabilire una base imponibile comune per le imprese localizzate in uno degli Stati membri o con un’importante quota di ricavi nell’Ue e consentire a ogni Paese di tassarne una parte. Malta, Irlanda, Polonia, Svezia e Paesi Bassi hanno già espresso riserve: non intendono rinunciare alla possibilità di attrarre investimenti esteri offrendo condizioni di favore. Il via libera all’unanimità in Consiglio sembra un miraggio. Altrettanto scoraggianti sono le prospettive della direttiva per prevenire l’uso improprio di entità di comodo a fini fiscali (“shell companies”): a due anni e mezzo dalla proposta della Commissione i governi dei 27 non hanno trovato un compromesso accettabile per tutti. E a giugno hanno stabilito che “serviranno ulteriori discussioni”.
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