La speranza antica del Nordest: un saggio di Emilio Franzina racconta l’emigrazione dal Triveneto
Calderai della Val di Sole, segantini delle Giudicarie, seggiolai del Primiero lasciavano le loro valli e i pascoli di montagna per scendere in pianura oppure per andare verso la Germania, l’Ungheria, la Transilvania.
Come i cramars che lasciavano la Carnia con il loro carico di stoffe o spezie e raggiungevano il Veneto e l’Istria, erano lavoratori stagionali che già nel Settecento avevano cominciato a spostarsi. Non lasciavano il loro paese per mera necessità, piuttosto portavano altrove, per alcuni mesi, il loro mestiere. Ma quella consuetudine a muoversi, ad abbandonare gli orizzonti familiari, fu come un allenamento per quando poi ci fu la vera emigrazione, quella dalle campagne.
Partirono in migliaia, alla fine dell’Ottocento, dai boschi del Veneto, dalle pianure di confine tra Pordenonese e Livenza, dalla Carnia, dalle valli trentine per cercare fortuna oltre l’Atlantico. Una fuga di massa, causata dal peggiorare delle condizioni economiche dei contadini e dalla grande disponibilità di terre nelle Americhe, in quella del sud soprattutto. Le foreste del Brasile accolsero interi paesi del Trevigiano, come ricorda Paolo Malaguti nel romanzo “Piero fa la Merica”, in cui lo scrittore di Monselice ha rispolverato come tirandola fuori da una cassapanca ritrovata in soffitta una pagina dimenticata nella storia dell’emigrazione italiana.
Ingannati da chi combinava i viaggi della speranza promettendo vite prospere e arricchimenti facili, scoprivano una volta arrivati nel Paese di destinazione che dovevano aprirsi da soli, a colpi di machete, la strada nella selva e costruirsi con le proprie mani le povere case che sarebbero diventate i primi nuclei delle future città. Sacrifici e sofferenza, fame e disperazione non erano a ben vedere diversi da quelli da cui erano scappati.
Quello dell’emigrazione è uno dei più antichi e saldi collanti del Nord Est e in quel fenomeno si trovano molte delle affinità tra Veneto, Trentino e Friuli Venezia Giulia.
Emilio Franzina in “Triveneto migrante. Il racconto dell’antica emigrazione dalle Venezie” (Ronzani, pp 500, 30 euro) mette a frutto quarant’anni di ricerche sull’emigrazione in un volume che prende avvio dagli albori del fenomeno, quando spostarsi per lavoro era nomadismo e stagionalità e non un drammatico abbandonare i luoghi nativi. Come oggi, anche allora chi arrivava si scontrava con l’aperta ostilità dei locali. Ne sanno qualcosa i friulani, guardati in cagnesco dai veneziani quando nel Settecento arrivavano in laguna per lavorare.
Franzina riporta poi alla luce una vicenda pressoché sconosciuta e che riguarda i figli dei discendenti di emigrati italiani che, allo scoppio della Prima guerra, scelsero di prendere la nave e combattere per la loro patria. Furono in tanti – centomila dagli Usa, 42 mila da Argentina, Cile e Uruguay, 10 mila dal Brasile – a raggiungere l’Italia per battersi sui fronti del Carso e dell’Isonzo, dando un contributo di sangue stimato nel 6% di tutti i caduti italiani. Ma ci fu anche, seppur di gran lunga più piccola, una componente che scelse di combattere per l’Austria. Erano trentini residenti per lo più nella zona del Rio Grande do Sul, dove rappresentavano il 30% della popolazione immigrata.
Di un’emigrazione da Trieste Franzina non fa cenno, probabilmente perché la città asburgica era ricca e in espansione e rappresentava un polo di attrazione per chi cercava lavoro; fu la città del secondo dopoguerra a veder salpare le navi verso l’Australia col loro carico di speranze. Dal Friuli invece si partiva, anche se i preti, sotto la spinta dei proprietari terrieri, cercavano di dissuadere i contadini.
Partivano da Aviano, Maniago, Mereto di Tomba, Martignacco, Reana del Roiale, verso il Canada e gli Stati Uniti. Gli uomini per fare i manovali e i braccianti, le donne non solo per andare a servizio o fare le balie ma anche per impiegarsi nelle fabbriche. Per le donne andare a lavorare in un Paese straniero, partendo da sole e da sole affrontando le incertezze e le difficoltà di una nuova vita era il primo passo per emanciparsi. È il caso di Tina Modotti, che arrivata a San Francisco nel 1913, comincia a lavorare in uno stabilimento tessile, prima di incontrare il teatro, poi la fotografia e andare incontro al suo destino.