L’amore di un padre: la notte di Ognissanti al pronto soccorso con suo figlio Ema
Ognissanti in…ospedale.
Ti ho conosciuto dolore in una notte d’inverno, una di quelle notti che assomigliano a un giorno ma in mezzo alle stelle invisibili e spente io sono un uomo…e tu non sei un cavolo di niente.
Al pronto soccorso siamo in tanti, le ambulanze non smettono mai di sfornare pazienti, Ema è silenzioso, lo accarezzo e in silenzio mi guardo attorno.
Su una barella vicino a noi c’è Mario che mi chiama insistentemente con il nome della moglie Lina e a tutti quelli che gli passano vicino chiede una penna e un foglio di carta dove scrivere il suo indirizzo. Sta aspettando l’ambulanza per tornare a casa ma ha paura che l’autista sbagli strada e lo porti in un posto che lui non conosce.
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A destra c’è Alberto, è pallido e ha la voce tremante. Ogni volta che alza la testa dalla barella si sente svenire e con tutte e due le mani prende subito il sacchetto che gli hanno dato le infermiere. Deve vomitare, il suo male, il suo dolore ma anche la sua paura. Dice di sentire le voci ma non sa a chi appartengono perché vicino a lui non c’è nessuno e questo lo spaventa ancora di più.
Nella barella davanti alla sua c’è Maria, avrà più di ottant’anni, vuole alzarsi per andare in bagno ma le infermiere, con pazienza, continuano a ripeterle che non può farlo. Rischia di cadere e di non andare più a casa. La pipì la può fare nel pannolone che le hanno messo. Maria lo guarda con disprezzo, il pannolone, e si rifiuta di fare la pipì. La sua forse è solo paura o forse è la consapevolezza di una vita che con cattiveria sta cambiando.
Alla sua destra c’è un signore con i capelli bianchi, è immobile, guarda fisso un punto che forse vede solo lui, nel braccio ha mille aghi ma negli occhi la fierezza di Geronimo e di chi ne ha passate tante.
Dalla stanza continua a entrare e uscire un ragazzo cinese, all’infermiere dice di chiamarsi Luigi, strano nome per un cinese, cerca suo padre ma non riesce a trovarlo da nessuna parte. Entra, esce, entra, esce, sembra un gioco. Dal box 5 Pietro ulula di continuo, un operatore sanitario, che ha perso per un attimo la pazienza, gli ricorda che non né un lupo. Pietro sorride e ulula ancora più forte.
Qualche letto più in là, dietro una tenda grigio fumo di Londra, che di dolore ne ha già nascosto molto, c’è un signore con i capelli scuri, credo sia curdo.
Parla, parla, parla di continuo nella sua lingua madre. Gli infermieri continuano a dirgli che non lo capiscono ma lui continua a parlare e alza la voce. Dalla sala d’attesa fanno entrare il fratello. Ha una coppola che mi ricorda la Sicilia, tutti sperano che parli italiano e invece diventa un incomprensibile dialogo a due a voce sempre più alta. Sembra la Torre di Babele cantata da Edoardo Bennato.
L’uomo sulla barella si porta spesso l’indice sul petto e urla, con gli occhi infuocati “Daryan”, immagino sia il suo nome, il suo modo per dire ci sono, sono vivo, voglio restare vivo.
Nel box 7 c’è Paola, una bella ragazza. È giovane con i capelli biondi raccolti. È sdraiata, sembra dormire, poi improvvisamente si alza appoggiando con forza le mani sulla barella e resta immobile per alcuni minuti prima di sdraiarsi nuovamente e ricominciare a dormire.
Entra un ragazzo, avrà sedici anni, ha il naso rotto e nella mano un fazzoletto pieno di sangue. È accompagnato da un poliziotto e e da una giovane mediatrice culturale. C’è stata una rissa in Piazzale Cella. Un dottore domanda al ragazzo come sta, lui lo guarda, lo sfida, si pulisce il sangue con la mano e non risponde.
Un ragazzo robusto con la barba lunga continua a scarrozzare lungo il corridoio il padre su una sedia a rotelle ripetendo a chi incontra «se lo muovo non si lamenta se mi fermo piange».
Entra Pietro, è molto anziano, dice che ha i figli in Francia e qui non ha nessuno. Vive in montagna con la badante che però in questi giorni non c’è e allora lui ha deciso di stare male proprio oggi. Dice che il cuore batteva troppo forte.
Anche la solitudine è una malattia.
Davanti a lui Anna è seduta con le gambe a penzoloni sulla barella. Sorseggia il suo te, si guarda attorno, sembra fregarsene del fatto che è “poco vestita”. Tossisce, sorride, beve il tè, sembra felice. Forse è altrove.
Poi, poi c’è Ema che dice a tutti quelli che gli chiedono come sta che lui sta bene, che non ha male da nessuna parte e che vuole tornare a casa perché l’ospedale non gli piace. Si gira e dal niente mi chiede: «Quando siamo andati alla reggia di Versailles? E a quella di Caserta?». Io rispondo a mio figlio nel 2016 e lui: «Si, nello stesso anno, sono belle tutte e due ma a Caserta ho mangiato la mia prima pizza». «Ah, quando torno a casa voglio mettere nuovamente gli occhiali».
Non so cosa rispondergli.
Arriva la dottoressa, la guardo con gli occhi del gatto con gli stivali, cerco di impietosirla sperando ci faccia tornare subito a casa ma lei ci dice che stanotte restiamo in questo splendido albergo cinque stelle.
La dottoressa vestita di blu continua a ripetere «siamo pochi, siamo sempre troppo pochi al pronto soccorso». Ha una parola per tutti mentre con l’ecografo a rotelle sembra pattinare sul ghiaccio spostandosi velocemente da un paziente all’altro.
L’infermiera bionda che ci ha offerto del te caldo ci saluta con un sorriso e con un abbraccio quando un portantino, più giovane di Ema, viene a prenderci per accompagnarci in reparto.
Gli infermieri della medicina d’urgenza ci stanno aspettando, sembriamo vecchi amici. «Ciao Ema, sei tornato a trovarci, riprenderemo le nostre lezioni sulle opere liriche». Ci hanno preparato la stanza n.11. Mentre gli infermieri sistemano Ema, saluto il portantino.
Mentre aspettavamo fuori dalla porta gli ho raccontato che sei anni fa, esattamente come oggi a quest’ora, Ema era in sala operatoria per fare il trapianto di cuore e che poi ha perso la vista e l’uso delle gambe.
Luca, il portantino, quando mi saluta ha gli occhi lucidi e mi/ci augura buona fortuna. Io gli stringo la mano e gli ricordo di godersi la vita perché è troppo breve per essere sprecata e a volte sa essere anche tanto tanto vigliacca.
In giro per i reparti non c’è praticamente nessuno, dalla grande finestra della stanza guardo la notte che è già padrona e con una smorfia mi domando se oggi, oltre a tutti i parenti assenti degli ammalati anche i santi erano in gita al mare, in montagna, in qualche ciclabile in giro per l’Europa o in qualche sagra a mangiare castagne e bere ribolla. Del resto, solo dolore e ospedale non conoscono e non rispettano le festività
Che sia una notte tranquilla.
Bellanotte e…a domani.