Serbia, nuovi scontri a Novi Sad: «Giustizia dopo la strage»
Un Paese coi nervi a fior di pelle. È la Serbia, dove non si placa l’onda lunga del gravissimo incidente alla stazione di Novi Sad, avvenuto lo scorso primo novembre, edificio da poco riaperto dopo una lunga ristrutturazione – con il cedimento improvviso della tettoia di cemento esterna che ha provocato ben 15 vittime. E la strage ha scioccato la nazione e portato in piazza migliaia di persone, commosse e indignate, a chiedere giustizia. Proteste che non si fermano, anzi, sembrano incanalarsi verso l’escalation.
L’epicentro, ora, è di nuovo Novi Sad, dove martedì e anche ieri – con l’azione che proseguirà oggi – attivisti e soprattutto politici di opposizione hanno bloccato l’ingresso principale dell’edificio che ospita procura e tribunale, difeso da un gran numero di agenti in tenuta antisommossa. E per due giorni non si sono contate le scaramucce e gli incidenti tra polizia e manifestanti. Svariate le richieste di chi protesta. Quella principale è l’avvio di un’indagine rapida ed efficace che possa chiarire chi sono i colpevoli della tragedia di Novi Sad, accompagnata dalla richiesta dell’immediato rilascio dei tanti arrestati nel corso delle manifestazioni dello scorso 5 novembre davanti al municipio della principale città della Vojvodina, sfociate poi in violenza. E violenze si sono osservate anche nelle ultime azioni di protesta a Novi Sad.
«La Gendarmeria ha usato gli scudi per colpire la gente, era assolutamente non necessario», ha affermato Borislav Novaković, del Narodni Pokret Srbije (Nps), che aveva in precedenza accusato la magistratura di «non fare il proprio lavoro». E stigmatizzato il fatto che «chi ha chiesto giustizia è ora in carcere», un riferimento ad attivisti e politici fermati, mentre a venti giorni dalla strage «nessuno dei responsabili» ha pagato.
«Siamo venuti qui senza portare taniche di benzina per incendiare il tribunale, sono sorpreso che non facciano entrare» nel palazzo «noi deputati», ha fatto eco Srdjan Milivojević, del Partito democratico (Ds). Chi è riuscito a entrare, dopo aver forzato il cordone di polizia, è stato un altro parlamentare, Radomir Lazović (Zeleno-Levi Front), accompagnato da due colleghi, che ha raccontato di essere stato «circondato da 60 agenti» all’interno dell’edificio. «Questo regime uccide i cittadini, dobbiamo fermarlo e queste sono le reazioni di un sistema che è nervoso e cerca di nascondere le proprie responsabilità», ha da parte sua rincarato Borko Stefanović, dell’Ssp, che ha suggerito che Vučić e il ministro degli Interni Dačić abbiano «mandato la polizia per cacciarci con la violenza».
«Chi aggredisce un poliziotto, chi scaglia pietre o altri oggetti contro gli agenti, chi infrange i vetri delle finestre non è più un attivista politico ma un violento, e come tale va perseguito penalmente», la versione invece della vecchia volpe della politica serba, Dačić appunto. Nel frattempo, le proteste potrebbero registrare una nuova accelerazione. È quanto ha proposto l’iniziativa civica ProGlas, che ha chiesto a tutti i serbi di fermarsi per 15 minuti venerdì, alle 11.52, l’ora della tragedia, in tutte le città del Paese balcanico. Nel frattempo, sempre ieri, incidenti e arresti si sono registrati quando la polizia ha sgomberato politici e attivisti che tentavano di impedire la demolizione di un altro simbolo di Belgrado, lo “Stari Savski Most”. —