Primina della Scala, i giovani si “difendono” da La forza del destino di Verdi con cornetti rossi, gadget a forma di coccinella, amuleti e un teschio messicano
Nessun inciampo in scena, nessun cambiamento nel cast all’ultimo secondo, nessuna barba finta che cade vistosamente sul palco, nessun lampadario che precipita, nessuna crisi esistenziale o amnesia da parte degli artisti. Niente di niente. Alla Primina del 4 dicembre de “La forza del destino”, l‘opera maledetta’ di Verdi, al Teatro alla Scala è andato tutto liscio. L’unico melodramma andato in scena nella serata dedicata ai giovani, che anticipa l’apertura di stagione ufficiale a Sant’Ambrogio, è stato quello del compositore. Coronato da dieci minuti di applausi del pubblico che è riuscito ad avere i biglietti a 20 euro facendo postazione online per il fatidico posto. Così, ci sta anche la bollicina durante l’intervallo e si riesce a stare nel budget.
Ma la fame come si placa in quasi quattro ore di spettacolo? Semplice: la rappresentazione finisce in tempo per andare a mangiare qualcosa in zona, un panino, un panzerotto, una pizza. E qualcuno, conoscendo la puntualità scaligera, si è dimenticato anche di silenziare la sveglia sullo smartphone: perché alla 22 esatte, a spaccare il secondo della fine dell’opera, è partita in platea una suoneria che sembrava sincronizzata per gli applausi.
Una generazione, quella degli Under 30, concreta, semplice, sobria, organizzata. Lo notiamo già dall’ordinata fila di ragazze e ragazzi che attendono di entrare: nessuno è vestito in maniera appariscente, nessuno si intrattiene troppo per selfie e sfilate di abiti. Appena le luci si fanno intermittenti entrano tutti per prendere posto: vogliono vedere l’opera. Punto. E non sono addobbati come certi vip della serata inaugurale, quella del 7 dicembre.
Anche sulla questione dell’‘opera che porta jella’, sulle maldicenze riferite al titolo verdiano (raramente rappresentato al Piermarini), innominabile perché farebbe accadere incidenti a raffica, i giovani si sono preparati quanto basta. Non troppo e non poco. Il giusto.
La scaramanzia non manca in platea – Alcuni si sono portati cornetti rossi, gadget a forma di coccinella, amuleti che usano tutti i giorni e non sono specifici per l’opera. Persino un teschio messicano morbido anti stress. Altri invece non ci hanno neppure pensato e hanno detto palesemente: “Non ci crediamo. Chissene”.
Come Alessandro, avvocato originario di Otranto ma milanese d’adozione. E’ un veterano delle Primine, ha visto crescere la sua passione per l’opera grazie a queste serate e dice di non essere scaramantico. Perché è alla Scala? “Mi colpisce la lunghezza di quest’opera, permette di affezionarsi agli interpreti e alla narrazione. Ho letto che ogni atto rappresenta un’epoca storica e sono curioso di vedere come verrà rappresentata la guerra sullo sfondo. Questo pensiero la rende ai miei occhi molto attuale visto il periodo che stiamo vivendo”.
Gabriele invece un po’ scaramantico lo è. Anche lui pugliese di origine, ingegnere, indossa sotto il papillon una collana di perline: 17 per l’esattezza. Ma il portafortuna è solo un dettaglio: “L’arte si condensa in questo luogo magico anche dal punto di vista architettonico”, sottolinea. “Sono qui per questo: per il canto, la musica, la recitazione”. Si è documentato? Risponde schietto: “Non tanto da spoilerare il finale”.
Fra gli scaramantici ci sono anche Davide D’Occhio e Awa Fall, che ci mostrano i loro cornetti rossi e si fanno fotografare volentieri. Lei è venuta apposta da Roma, dove lavora, e non è mai stata all’opera in vita sua. Confessa: “So soltanto chi è Giuseppe Verdi e che quest’opera non si può nemmeno nominarla”. Poi aggiunge: “Di origine sono napoletana, quindi ho il mio amuleto, non si sa mai”. Davide, il ragazzo con lei, di professione consulente legale, è invece alla sua seconda Primina. Dice: “Cosa potrebbe succedere? Spero solo in una cosa: che non porti sfortuna alla mia storia d’amore, ma che anzi la suggelli”.
Gli fa eco Mattia, che studia per il dottorato di ricerca in ingegneria al Politecnico di Milano. Ironizza: “Dopo una giornata di pesante studio ci mancano solo quattro atti sventurati”. Adamo, ingegnere chimico, si è impegnato un po’ di più. Ha ascoltato a ripetizione l’opera sul lavoro, per la gioia dei colleghi. “Il mio riferimento è stato quello di Maria Callas, a cui do un 10 pieno. Vedremo Anna Netrebko come sarà nel ruolo. La sfido”.
Un po’ in disparte incontriamo anche Laura Inghirami, imprenditrice esperta di gioielli molto seguita dai coetanei. Fa tendenza con la sua eleganza raffinata in tailleur pantalone nero. La fondatrice di Donna Jewel, studiosa, docente e influencer (ma lei trova che questa parola non sia attinente a ciò di cui si occupa) che Forbes Italia mise nella lista under 30 dei leader del futuro, indossa la spilla Rosalia Alpina di Mariae Nivis 1567. Ispirata al raro insetto che vive nelle Foreste Casentinesi, un amuleto che per lei è un simbolo perfetto di resilienza che ben si associa alla forza di quest’opera.
Primo intervallo. Esce Beatrice Fasano, cantante lirica di Milano, e rivela: “Emozionante, soprattutto il finale del secondo atto. Nella ‘Vergine degli angeli’ la Netrebko nel ruolo di Leonora è stata unica. E le scenografie sono davvero strabilianti”. Anche Paolo, studente di lettere, trova la scenografia spettacolare, con la ruota del destino che gira e fa cambiare ambientazione. Ma del finale del secondo atto lo colpisce di più il coro dei monaci (diretto da Alberto Malazzi), che diventa voce unica con il canto. Questo aspetto ha entusiasmato anche il suo amico Marco: “Davvero inusuale. E che dire delle luci? I personaggi quando non sono illuminati sembrano statue, suggestivo”.
Alla fine della rappresentazione escono tutti molto soddisfatti – “Tutto liscio, nessun incidente, in realtà nessuna maledizione” conclude Marcello Lazzara, studente al dottorato di Lettere e al Conservatorio di Milano che l’anno scorso ci ha guidati alla scoperta della sua generazione. Ne sa abbastanza di opera per notare ciò che funziona e ciò che sarebbe stato meglio evitare. Spiega: “La qualità è costante in tutta l’opera: canto, musica e interpretazione. Ma se devo essere sincero ho apprezzato di più i primi due atti a cui darei un 9 pieno come voto. Sono rimasto impressionato dal basso Fabrizio Beggi (Il marchese di Calatrava) e da Marco Filippo Romano (Fra Melitone)”. La nota dolente? “Ambientare ogni atto in un’epoca diversa. Non vedo il senso di questa scelta stilistica. Il linguaggio del librettista (Francesco Maria Piave, ndr) stona con l’ambientazione contemporanea. La storia è una e non capisco la motivazione di estendere nel tempo la narrazione separando i momenti in modo così netto”.
Giuseppe, studente di scienze politiche, la pensa diversamente: “L’ho trovata una scelta coerente per attualizzare l’opera. Viviamo in un momento storico in cui il mondo è in guerra e questa scelta registica è molto forte per trasmettere un messaggio di pace”. Anche per lui, però, c’è una criticità. “La giudico un po’ sotto tono per una Prima della Scala. Non mi ha fatto venire la pelle d’oca, non mi ha lasciato a bocca aperta, con voci molto belle ma nella norma”.
Cosa rimane dentro? “Per me, la parte di Leonora, emotivamente. Ricorda quasi la Beatrice dantesca in alcune scene. E poi il finale, con Don Alvaro (il tenore Brian Jagde, ndr) che rimane solo fra le macerie. Davvero potente”. Voto? “Un bell’otto e mezzo”.
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