Siria, esercito in fuga da Hama. La città delle stragi commesse dal governo ora è in mano agli islamisti: “Tutto sarà meglio di Assad”
“Non lasciate un coltello nelle cucine di questa città”. Fu questo l’ordine che Amin Al Hafiz, primo presidente baathista della storia siriana, diede nel 1964 ai suoi uomini impegnati a piegare una sommossa popolare, con epicentro ad Hama, contraria alla presa del potere del partito Ba’th. Gli eventi culminarono nella morte di migliaia di persone e la vittoria delle truppe di Hafiz che schiacciarono il movimento dei Fratelli Musulmani, il quale aveva preso le redini della ribellione che da Hama era riuscita a diffondersi in tutta la Siria centrale.
Ma questa città, dominata dalle Noire, immense ruote costruite oltre mille anni fa per trarre acqua dal fiume Oronte, ritornò al centro della vita siriana anche nel 1982 con quelli che passarono alla storia come “I fatti di Hama”. Fra il 1979 e il 1982, il movimento dei Fratelli Musulmani siriano riemerse dalle ceneri degli Anni Sessanta e scatenò una ribellione contro il dominio del governo di Hafiz al Assad, padre dell’attuale presidente siriano, Bashar, che nel 1969 guidò un colpo di Stato all’interno del suo stesso partito isolando e imprigionando l’ala politica.
Nel febbraio 1982, Rifaat al Assad, fratello del presidente, ricevette l’ordine di guidare i suoi corpi speciali nei dintorni della città, controllata da un variegato fronte di opposizione che includeva l’ala militare dei Fratelli Musulmani, e di assediarla. Nello stesso mese in cui il mondo conobbe a mezzo stampa gli eventi dei campi profughi di Sabra e Chatila, in cui migliaia di palestinesi furono ammazzati, le notizie su Hama rimasero in secondo piano: l’aviazione siriana, con il sostegno delle forze speciali sul campo, la bombardò pesantemente. Non esistono stime univoche sul numero dei morti. I vari studi e i report, in particolare di Amnesty International, ci raccontano di un bilancio che varia fra i 20mila e i 40 mila morti.
Ma nella memoria siriana quegli eventi furono un momento di svolta. La biografia di Abu Muhammad al-Julani, a capo di Hayat Tahrir al-Sham, come quelle della stragrande maggioranza dei capi del fondamentalismo siriano di stampo salafita, ci racconta che quei fatti divennero il terreno ideologico sul quale costruire un proselitismo basato sull’odio settario, in particolare verso la minoranza alawita a cui appartiene la famiglia del rais siriano. Nel 2011, le immense manifestazioni che avvennero ad Hama, liberata per un brevissimo periodo dalla presenza delle forze del regime, dimostrarono quanto quei fatti avessero ancora risonanza ed eco nelle nuove generazione che avevano riempito la piazza centrale. “Giustizia è fatta” gridarono quasi 15 anni fa.
“Hama libera” continua ad avere una forza simbolica di rivalsa. “È finalmente arrivato il momento della giustizia, di dare un nome a quei morti dimenticati del 1982, di ricordare i miei amici uccisi nel 2011 proprio in questa città”, dice a Ilfattoquotidiano.it Abu Rami, nome fittizio, raggiunto telefonicamente. E parlando del fronte dell’opposizione dice: “Tutto sarà meglio del governo siriano ma ho paura dei bombardamenti aerei, trasformeranno la città in un cumulo di macerie come nel 1982”.
Al momento, la stampa araba riporta che i ribelli hanno liberato dalle carceri circa 3mila detenuti. Mentre l’esercito fedele ad Assad e le varie milizie che lo supportano hanno annunciato una ritirata tattica per “tutelare le vite dei civili ed evitare combattimenti in città”. Intanto Abu Rami guarda il cielo: “Mi sento libero”, garantisce. Ma il rombo dei jet militari si avvicina.
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