Viaggio tra i disperati dell’isola del Mose: ecco come vivono i 50 immigrati
Una strada che da Santa Maria del Mare porta al centro di Pellestrina, la presenza rassicurante della laguna. Il vento gelido. In lontananza prefabbricati: scatole grigie impilate su altre scatole grigie, che si scorgono solo se le si sta cercando, se si scrutano le tonalità di azzurro tra cielo e acqua per trovare quel punto di rottura, al centro di una polemica. Una scorciatoia nel verde permette di raggiungerli, le bucce di mandarino abbandonate come le briciole di Hansel e Gretel promettono di farcela.
I container nei cantieri del Mose, a Pellestrina, sono avvolti dal silenzio. Non c’è nessuno, non può esserci qualcuno se non qualche operaio, viene da pensare. E poi, nel nulla, un triciclo rosa e viola. Tra le casette prefabbricate, in mezzo alle tapparelle bianche tutte abbassate, una trama di fili, su cui sono appesi jeans, magliette e coperte, segnala la presenza umana.
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Sono i vestiti dei circa 50 immigrati, quasi tutti africani, che nell’ultimo anno hanno imparato a chiamare casa il complesso, anche se di casa non ha nulla.
Lo stesso complesso - di proprietà del Consorzio Venezia Nuova - che il sindaco Luigi Brugnaro ha chiesto di smantellare durante l’ultimo Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica con il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi.
«Hanno creato problemi» ha detto il sindaco e confermato la Municipalità che, tra l’altro, oggi discuterà di questo punto in Consiglio.
«Non ho sentito malumori da parte dei cittadini» ribatte Rossella Favero, dell’associazione Abitanti in isola, «sono profondamente stupita e amareggiata di sentire queste dichiarazioni del sindaco».
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Un altro componente dell’associazione pellestrinotta, Emilio Ballarin, si dice a favore dello smantellamento della struttura - previsto, tra l’altro, negli accordi del Mose - non tanto per allontanare i migranti, ma nell’ottica di consentire loro una reale integrazione. «C’è bisogno di una progettualità, bisogna pensare al loro futuro, non possono restare lì» aggiunge.
Il silenzio surreale del centro di accoglienza, in bilico tra mare e laguna, viene rotto dalla risata di un bambino. Ha tre anni, al massimo quattro, uno zainetto in spalla e un biscotto Ringo in mano. Sorride e corre sicuro da una parte all’altra, conosce il personale della cooperativa sociale Il Cerchio che si sta occupando dell’accoglienza. Conosce gli spazi e, probabilmente, tra tutte quelle scatole grigie identiche tra loro sa riconoscere la propria.
Non è l’unico bambino a vivere nei cantieri del Mose, lo raccontano i giochi abbandonati nel prato, i cavalli a dondolo in plastica e le biciclette arrugginite che, per chi non ha nulla, possono trasformarsi in carrozze scintillanti. Gli stessi giocattoli con cui, forse, prima di loro hanno giocato i bambini ucraini ospitati nel centro dopo lo scoppio della guerra, nel 2022.
È stato allora che si è pensato di convertire le baracche del cantiere in case per le donne e i loro figli.
Andati via, a fine emergenza, i loro posti sono stati occupati da altre persone, da altre donne che attraversano il campo con gli occhi spaventati e l’ombra di un sorriso. Il rumore dei loro passi sulla ghiaia rimbomba tra i prefabbricati, ma è solo un soffio che si perde in tutto quel vuoto, tutto quel grigio, in tutta quella solitudine. Una di loro ha un bambino di pochi mesi avvolto in una coperta, stretto al suo corpo per proteggerlo dalla crudeltà della bora, del mondo, dell’incertezza.
Lo sta portando a casa, al suo fianco il fratellino di più grande, con un berretto a forma di gatto. Sorride, il bimbo, non deve sforzarsi, con la fantasia il suo monopattino può diventare un aereo o un missile. Ma un cantiere, potrà mai diventare una vera casa?