Querele temerarie, le voci di giornalisti e attivisti denunciati da politici e aziende: “Nessun canale di comunicazione con governo e Nordio”
Un primato per l’Italia, ma con poco da festeggiare. È quanto emerge dall’ultimo report di CASE (Coalition Against SLAPPs in Europe), la rete europea che monitora le querele e le azioni legali temerarie delle quali sono vittime giornalisti, associazioni, ong, attivisti impegnati per l’interesse collettivo e nella difesa dei beni comuni. Nel 2023 nel nostro Paese, si sono registrati 26 casi di Slapp (Strategic Lawsuits Against Public Participation), sui 166 totali avvenuti in 41 Stati, tra membri Ue e paesi candidati.
“Prima l’Italia, poi la Romania, poi Serbia e Turchia“, spiega al Fattoquotidiano.it. Sielke Kelner, ricercatrice dell’Osservatorio Balcani Caucaso Transeuropa, tra i membri italiani di CASE che, insieme ad Amnesty International Italia e The Good Lobby, hanno organizzato a Roma il convegno “Liberi di esprimersi liberi di informarsi” – al quale ha partecipato anche il condirettore del Fatto, Peter Gomez -, in occasione della Giornata internazionale contro la corruzione. E non è un caso. Perché, come spiega la stessa Kelner, a preoccupare è soprattutto l’oggetto dei contenziosi: “Nel 36,1% di questi casi l’azione temeraria è stata fatta per bloccare tentativi di rendere pubblici fatti di corruzione, mentre nel 16,3% dei casi attivisti, giornalisti e associazioni sono stati trascinati in tribunale dopo aver preso posizione in difesa dell’ambiente. Sono entrambe questioni cruciali, di pubblico interesse“.
A essere colpiti dalle liti temerarie sono giornalisti, ma non solo. Basta ascoltare le storie raccontate nel corso dell’iniziativa e le associazioni colpite: da Greenpeace a ReCommon, passando per Essere Animali. E pure le donne vittime di violenze. “Succede sempre più spesso che in concomitanza con date come il 25 novembre o l’8 marzo, chi è vittima di abusi e violenze racconti la propria storia. Seguo un caso di una donna che sui social ha scritto “Mi ricordo delle violenze, le botte, non ti perdonerò mai, G.L”. Ma G.L. si è riconosciuto e dopo due giorni ha presentato una denuncia per diffamazione”, racconta Elena Biaggioni, di Donne in Rete contro la violenza. “Sono andata dal pm chiedendo di archiviare, considerato come il racconto fosse avvenuto nella ricorrenza del 25 novembre, e come non ci fosse alcun insulto, né attacco personale. E soprattutto, ci fosse interesse pubblico. Ma la risposta che ho ottenuto è stata negativa: “Facebook non è un tribunale, così impara a non denunciare“, mi ha risposto. Nella sentenza in cui poi la donna veniva prosciolta, dato che nel frattempo era intervenuta la condanna per il fatto contestato, il giudice ha comunque voluto rimarcare l’assenza di interesse pubblico. Una cosa che ancora mi ferisce. L’efficacia che hanno le querele intimidatorie è potentissima. E non abbiamo bisogno di ulteriori meccanismi per silenziare le donne“.
E poi ci sono le storie dei cronisti, a partire da quelli delle testate locali. Come quella di Salto.bz, raccontata dal direttore Fabio Gobbato: “Il nostro caso è stato raccontato come quello in cui Golia ha fatto causa a Davide. In Alto Adige c’è un grosso editore, Athesia, che detiene l’80% circa del mercato regionale e che non è soltanto un gruppo editoriale, ma un potentato economico”, racconta. “Ci è arrivata una richiesta di mediazione: 150mila euro di risarcimento danni. Ci accusano di stalking mediatico. Per il momento è una minaccia, non si è arrivati in una fase successiva. Ci contestano 58 articoli pubblicati negli ultimi 4 anni. Ma in realtà solo tre o quattro sono tipici da casi di diffamazione, anche se per noi è tutto in regola. Negli altri in realtà il gruppo si è sentito ‘offeso’. Un chiaro tentativo di imbavagliarci“, attacca Gobbato.
Non è l’unico. C’è chi come Claudio Cordova (Il Dispaccio) racconta di aver avuto “richieste di risarcimento in venti anni per oltre tre milioni di euro, tra penale e civile”: “È chiaro che tutto questo ti fiacca“. E pure Giulio Rubino, cofondatore di IRPI (Investigative Reporting Project Italy), rivendica: “Quando lo scopo è togliere informazione dalla rete, ci sono metodi più economici, anche per chi denuncia. Ma quando si arriva a una causa civile vera e propria lo scopo non è difendersi da un giornalismo che ha attaccato determinati affari, ma è proprio punire il giornalista, nel modo più violento ed economicamente impattante. Senza contare cosa significa nel caso perdere una causa per realtà come la nostra: probabilmente la chiusura“.
“La scorsa primavera finalmente è stata adottata la direttiva Ue anti-Slapp, sancisce che queste sono una minaccia molto seria sia per la libertà di stampa che d’espressione”, spiegano da CASE. Ma, si sottolinea, questa pone degli standard minimi e riguarda soltanto i casi transfrontalieri. Tradotto, spiega Kelner, “se si analizza il nostro ultimo report registriamo come soltanto il 9,4% dei casi esaminati dal 2010 ad oggi ha natura transfrontaliera. Quindi l’attuale direttiva coprirebbe un numero marginale di casi e di bersagli di Slapp. Per questo il Consiglio d’Europa e le stesse raccomandazioni Ue ci chiedono che la direttiva venga applicata a tutti i casi, compresi quelli nazionali”. Sarebbe necessario un maggiore impegno degli Stati, Italia compresa, in attesa del recepimento della direttiva: “Purtroppo non siamo riusciti ad aprire alcun canale di comunicazione, né con il governo, né con il ministro della Giustizia Carlo Nordio“. Non sembra una sorpresa, proprio nelle stesse ore in cui il Consiglio dei ministri dava il via libera al nuovo bavaglio rinforzato, approvando il decreto legislativo che vieta ai giornalisti non soltanto la pubblicazione delle ordinanze di custodia cautelare, ma anche delle altre ordinanze che riguardano le misure cautelari personali di tipo “coercitivo” (come arresti domiciliari, divieto di espatrio, obbligo di dimora, di firma, divieto di avvicinarsi ai luoghi frequentati dalla persona offesa) e “interdittivo”.
Intanto CASE rilancia tra le sue richieste “anche la depenalizzazione della diffamazione e una riforma di quella civile, alla luce della direttiva e delle raccomandazioni del Consiglio d’Europa”. Riforma che, ha ricordato pure Graziella Mambro di Articolo 21, è “ferma in Parlamento”. Alla luce delle proposte peggiorative della maggioranza (che ha già tentato di aumentare gli anni di carcere per i giornalisti ritenuti colpevoli, ndr), quasi una fortuna.
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