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Gentilini a cuore aperto, dai trent’anni di Lega a Treviso alle grandi opere:  «Decisionismo necessario»

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Ho piacere che abbiate ricordato questo anniversario, altrimenti come si dice a Vittorio Veneto, vince “el mal del desmentegon”... io me lo ricordo come fosse ieri».

Giancarlo Gentilini, a dispetto delle sue 95 primavere abbondanti, riguarda il trentennio di comando della Lega a Treviso (con un break di 5 anni, citofonare Manildo e centrosinistra) che ha aperto, a dicembre 1994. E ha ancora tutta l’energia per rivendicare i suoi meriti.

Gentilini, rimpianti?

«Pochi giorni fa, ad una festa, la gente mi chiedeva perché ho mollato. La verità è che quella volta (nel 2013, fu sconfitto da Manildo ndr) in troppi sono andati al mare, e forse, aggiungo io, c’è stata pure qualche pastetta politica. Peccato, avrei potuto fare perfettamente altri due mandati. La riprova? Dicono che l’anzianità non faccia grado ma aceto. Non nel mio caso, fa solo rimpianto, quando mi dicono “Con lei la città ha vissuto gli anni più belli” penso davvero di aver lasciato un’ orma, il segno. “Sol chi non lascia eredità di affetti poca gioia ha dell’urna”, diceva Foscolo. Giusto, io mi sto preparando al grande viaggio, ma consapevole di aver dato, all’Italia e al mondo. Chiedete agli emigranti della Trevisani nel Mondo, che volevano conoscere il “fenomeno Gentilini”... ah ah ah».

Lei ha saputo incarnare la legge sul potere ai sindaci come nessun altro, forse. Ne era consapevole?

«Guardi, io ci ho messo tutta la mia persona, le mie esperienze, l’educazione sotto il regime fino alla mia lunga esperienza professionale come legale di Cassamarca. E le posso garantire che la città la conoscevo bene, mai delegato nulla, conoscevo luoghi e persone. E poi, niente spazio alle pastoie, ai giochi di potere, non facevano parte di me».

Lei ha portato il sindaco in piazza, h24.

«Il Comune era aperto sempre, domeniche e feste comprese. E la gente l’ha capito. Poi credo che abbiano pesato molto l’onestà, perché nessuno degli amministratori che erano con me ha preso un euro, magari ci abbiamo rimesso, e inoltre l’assenza di interesse personale, ma solo quello dei trevigiani. E infine, il decisionismo: fatta una scelta, per il bene dei cittadini e della città, la si deve portare avanti, costi quel che costi».

Lei ha detto «il modello».

«Il mio Vangelo, ahahah... Dio, Patria e famiglia. Ho scritto anche a Trump, se sono sceriffo onorario della North Carolina, un po’ americano mi sento: gli ho detto chiaro e tondo che ha rivinto perché dice le cose che io dicevo 25 anni fa».

Le ha risposto?

«No, tornerò a scrivergli».

Cosa rivendica, fra le sue scelte?

«Certo l’aeroporto, qualcuno voleva chiuderlo, ma io mi ricordavo che mio padre mi portava lì da bambino, era stato aperto nel 1935, a vedere truppe ed aerei. Oggi è uno scalo di livello internazionale. Ed il Put: la città si girava in pochi minuti».

Oggi non è più cosi.

«Vedo. Ed è la prima cosa cui metter mano, assolutamente».

Come, Gentilini?

«Con il park Vittoria, la vera priorità della città perché la gente potrà finalmente parcheggiare nel cuore del centro. Se penso che l’ho presentato io quasi 30 anni fa ai consiglieri, il progetto...».

Appunto, dopo tre decenni siamo ancora lì. Non si è mossa una foglia. Altro che il suo “fare, fare”...

«Purtroppo. È vero, ad un certo punto, tutto si è fermato: le rotonde in strada Ovest, la tangenziale, il Terraglio Est».

E si è dato una risposta?

«La gente avrebbe dovuto votarmi, quella volta, in due mandati avrei risolto tutto».

De Poli, Fondazione Cassamarca, Appiani.

«Tante baruffe, ma quante opere per la città... L’Appiani purtroppo non è diventata quello che doveva essere, si è come enucleata dalla città. E poi dicevo sempre a De Poli “Fai le case e le strutture per anziani, qui la città invecchia”. E lui, duro: “No, a questo deve pensare lo Stato”. Una risposta che non mi è mai andata giù, gliel’ho sempre detto».

Lei un tempo sfidava anche Bossi, sul tricolore, oggi come sarebbe il suo rapporto con la Lega?

«Non riuscirei a far nulla. Da un lato i tempi sono cambiati, dall’altro, e lo dico anche a Conte, oggi i giochi si decidono a Roma, un tempo non era così, c’era tutta l’autonomia del sindaco e dei territori. Oggi io e i miei collaboratori non troveremmo né ascolto né terreno. E non accetteremmo, diremmo no. Quella volta del “tricolore nel cesso” dissi a Bossi: “a Treviso questi discorsi non si possono nemmeno pensare”, e infatti lo mandai in... a quel paese. Ah ah ah ah».

I suoi allievi?

«Basso, Zampese, Caner, e tanti che purtroppo oggi non ci sono più. E se guardo indietro non dimentico neanche l’entourage di De Poli».

Lei ha fatto della sicurezza il suo totem. Ora, nonostante i vostri decenni di governo, la situazione in città è oggettivamente peggiorata, non solo per le gang. Cosa dice lo sceriffo?

«Resto convinto che il problema della criminalità si risolve con l’Esercito. E lo stop ai clandestini».

Nel frattempo i giovani italiani non fanno più certi lavori, e tutti invocano ulteriori flussi per coprire almeno i servizi essenziali, già a rischio.

«Gravissimo, dal lavoro comincia tutto. Mi appello a imprenditori sindacati, ne va del paese. Lavoro, lavoro lavoro».




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