Tra le cose dette da Caffo una mi ha colpito: vuole scusarsi ‘moralmente’. Che vuol dire?
Si difende con le unghie e con i denti. Al Corriere della Sera dice che starà in silenzio “non sono un belligerante, non lo ero prima, non lo sono stato durante, non lo sarò dopo” anche se la pm Milda Milli, nella requisitoria lo aveva descritto come un uomo “volto a pulire la propria immagine continuando a screditare la parte offesa, in un caso di scuola di vittimizzazione secondaria”. E sempre al Corriere: “Nessuno può dubitare che io abbia una grande capacità di incassare mer… senza dire niente” ma in silenzio non sta.
A poche ore dalla sentenza del tribunale di Milano che lo ha condannato in primo grado a quattro anni per maltrattamenti e lesioni gravi, e a versare alla compagna e alla figlia, una provvisionale di 45mila euro, il filosofo cerca microfoni per dirsi innocente. Le dichiarazioni si alternano tra pacatezza, rancore e vittimismo. La quinta sezione penale del Tribunale di Milano, secondo Caffo, avrebbe emesso una sentenza politica. “Hanno colpito me per educarne mille” ha commentato, ispirandosi al latino unum castigabis, centum emendabis ovvero “punire un errore per correggerne cento”. Era il motto preferito da Mao Zedong e dalle Brigate rosse che lo usarono per giustificare le loro azioni violente. Leonardo Caffo lo ripete ai giornalisti, dopo aver moltiplicato per dieci, i bersagli che sarebbero “educati” dalla sentenza che lo ha condannato. La risonanza della sua condanna non vale cento altri uomini, sia ben chiaro, ne vale almeno mille. Ne è convinto.
Pesco nell’insalata delle sue dichiarazioni. Ho l’impressione di uno specchio che va in frantumi, e le schegge volano via in tutte le direzioni, come le sue parole. Libero le riprende e ne approfitta anche per inzuppare il pane (e perché non dovrebbe farlo?) nelle divisioni che quel processo ha portato in certi circoli intellettuali femministi e di sinistra dove sono volati gli stracci, tra accuse di ‘caccia alle streghe’ (tra coloro convinti di stare sempre dalla parte del giusto, le critiche scottano come roghi) difese, polemiche e figure da spazzacamino. A quella testata, Caffo affida l’ennesimo sfogo: “Ho bisogno di qualcuno che mi faccia parlare”. Dice “non l’ho mai picchiata” poi racconta delle minacce di morte che ha ricevuto sui social così come accaduto all’avvocato di Filippo Turetta. Dà lezioni di femminismo “intelligente”, si dichiara innocente ma nello stesso tempo dice al giornalista che “devono ricordarsi che siamo in un Paese cristiano, dove esiste il perdono”.
Quindi vorrebbe essere perdonato? Peccato che nessun giornalista glielo abbia chiesto.
Tra tutte le dichiarazioni di Caffo una mi ha colpito in particolare, quando ha detto che vorrebbe scusarsi “moralmente” ma non penalmente. Trent’anni fa, lo stupro era un reato contro la morale e non un crimine contro la persona. Quando parliamo di patriarcato, parliamo di questo. Non saper riconoscere che la violenza contro una donna sia un crimine, collocarlo nell’ambito della moralità. Essere convinti che un uomo abbia una certa discrezionalità nel dosare la violenza nei confronti di una donna e se ben dosata, si tratti tuttalpiù di una questione morale.
“Non sapevo che fosse reato picchiare mia moglie”, disse un uomo condannato per percosse al giudice Fabio Roia. “Signor giudice, ammetto di aver picchiato mia moglie, ma quale violenza sessuale avrei commesso? Quella è mia moglie!”, ha gridato un giovane uomo in un tribunale italiano, qualche mese fa. In Francia, gli imputati per stupro nel caso Pelicot si sono difesi in tribunale dicendo “avevamo avuto il permesso dal marito e pensavamo che fosse sufficiente”. E già. Il patriarcato è questo. E’ pensare che non puoi picchiare una donna ma la puoi denigrare e umiliare, che non puoi insultarla ma puoi disporre del suo corpo, esercitando il controllo un po’ come ti pare e con le tue regole morali. Eppoi finisci in tribunale senza sapere perché.
Sulla vicenda di Leonardo Caffo si potrebbe discutere per giorni, o forse mesi, perché mette in luce, come l’approccio alla violenza maschile contro le donne sia attraversata da ambiguità e contraddizioni. E’ un fenomeno che può attraversare la vita di tutte e chiunque può farne esperienza. Libero titola “da eroe e mostro”. E’ un vizio che non riusciamo a togliere, quello di mostrificare gli uomini accusati di violenza. Non sono mostri. Anche gli autori di violenza hanno difficoltà, se sono violenti ‘perbene’ a riconoscersi nelle loro azioni: “Io non sono quello”. Un uomo condannato per violenza venne invitato e invitato a partecipare a dei gruppi in un Cam, chiese all’operatore, preoccupato: “ma che tipo di uomini ci sono in quel gruppo?”. Uomini come te, gli risposero.
Intanto, ai margini del clamore mediatico, al confine della scena, c’è la donna che ha denunciato Leonardo Caffo che ha risposto con poche parole ai giornali: “Questa sentenza conferma una verità che per quasi due anni ho cercato di far emergere, affrontando innumerevoli difficoltà, sia sul piano personale, legale che mediatico. Queste difficoltà non sono un caso isolato, chiunque denunci una situazione simile si scontra con un sistema che troppo spesso manca di strumenti adeguati per supportare le vittime. Questa sentenza tuttavia è solo la superficie di un problema più ampio e radicato. È fondamentale che questa vicenda serva da spunto per riflettere su quanto ci sia ancora da fare per prevenire e contrastare realmente le violenze”.
La testimonianza su tutto ciò che ha vissuto è rimasta in tribunale, dopo la sentenza si è tenuta lontana dai riflettori. Non ha preso nessuno spazio. Lui, Leonardo Caffo, il filosofo, lo scrittore, lo spazio se lo è preso e glielo hanno dato tutto. Ancora.
@nadiesdaa
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