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La nuova «febbre» atomica

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In pochi sembrano essersene accorti, ma questa fredda fine del 2024 rischia di essere ricordata come l’inizio di un brusco ritorno alla minaccia atomica globale. Gli indizi sono cupi, e messi tutti insieme alimentano le paure. Un potente rintocco è suonato il 21 novembre, quando Vladimir Putin ha dato l’ordine di colpire la città ucraina di Dnipro, e la Russia ha testato il suo nuovo missile balistico ipersonico Oreshnik. Per l’occasione, il vettore era armato con una testata convenzionale, ma la tv governativa Russia Today, vero megafono propagandistico del Cremlino, ha segnalato che l’Oreshnik - un nome che significa «albero di nocciole» - nasce in realtà per trasportare almeno sei testate nucleari, e a una velocità di 13 mila chilometri orari può raggiungere Londra, Parigi o Roma in soli 13 minuti, e gliene bastano nove per colpire Berlino. Da due anni Mosca minaccia l’impiego di un’arma tattica nucleare per chiudere una volta per tutte l’invasione dell’Ucraina. Ma ora la minaccia si allarga all’Europa: intervistato da RT, il generale a capo delle forze missilistiche strategiche russe Sergei Karakayev ha sottolineato che «la velocità e le traiettorie con cui viaggia l’Oreshnik lo rendono molto difficile da intercettare dai migliori sistemi di difesa Nato».

Pochi giorni prima, reagendo alla decisione del presidente americano Joe Biden che aveva autorizzato il governo di Kiev a utilizzare il sistema missilistico tattico statunitense Atacms per colpire obiettivi in profondità all’interno della Russia, Putin ha fatto un annuncio che ha drasticamente ridimensionato i protocolli d’impiego per le armi nucleari. Fin dai tempi dell’Unione sovietica, Mosca aveva sempre dichiarato che avrebbe usato le sue atomiche «in risposta a ogni attacco, anche convenzionale, in grado di minacciare l’esistenza della Russia». Con poche parole, Putin ha modificato la regola e ogni remora: d’ora in poi, ha annunciato, basteranno «minacce critiche alla sovranità o all’integrità territoriale della Russia o della Bielorussia». S’è arrogato perfino il «diritto ad attacchi nucleari anche contro Stati non nucleari», come l’Ucraina, «se questi utilizzeranno armi distruttive messe a disposizione da una potenza nucleare», per esempio gli Stati Uniti. Da allora, gli alti comandi della Nato sono entrati in allarme rosso. Non solo perché la nuova minaccia putiniana rischia di scatenare divisioni inedite tra i governi europei. A inquietarli, e a far balenare l’avvio di una nuova era di riarmo atomico, c’è anche Pechino. Un mese fa, il Pentagono ha rivelato gli ultimi piani di Xi Jinping, che all’Esercito di liberazione popolare ha ordinato di passare dalle attuali 500 testate nucleari ad almeno mille nel 2030, e a 1.500 entro il 2035. È vero che le atomiche cinesi saranno comunque meno numerose delle 1.770 bombe americane «attive», e anche delle 1.710 russe (vedere la tabella a pagina 51).

La corsa al riarmo della Repubblica popolare, però, subirà un’accelerazione impressionante e pericolosa. La spesa militare di Pechino da almeno quattro anni cresce a una media del 7-8 per cento: nel 2024 i servizi segreti statunitensi stimano sia arrivata a 700 miliardi di dollari, quasi il triplo dei 232 miliardi dichiarati ufficialmente dal regime e vicini agli 800 miliardi del bilancio della Difesa americana. Per di più, in novembre la Cina ha innalzato il livello di competizione schierando il nuovo bombardiere strategico Xi’an H-20: simile allo Stealth americano, l’H-20 non è rilevabile dai radar e trasporta fino a 10 tonnellate di bombe - anche atomiche - in un raggio di novemila chilometri.

Non bastassero Russia e Cina, altri clangori di riarmo nucleare arrivano dalla Corea del Nord, che quasi ogni settimana sperimenta missili intercontinentali sempre più potenti, e soprattutto dall’Iran degli ayatollah. Lo scorso 29 novembre il regime di Teheran ha informato l’Agenzia atomica internazionale di avere installato altre seimila centrifughe per l’arricchimento dell’uranio, violando tutti gli accordi di non proliferazione e in spregio ai continui richiami delle Nazioni Unite. Già in giugno era emerso che l’Iran, dopo aver triplicato in meno di un biennio la produzione di uranio arricchito, era ormai al 90-95 per cento della quantità necessaria per fabbricare la bomba H. Poi, lo scorso 5 ottobre, un misterioso sisma con epicentro nella provincia desertica del Semnan, non lontano dagli impianti nucleari sotterranei di Fordow e Natanz, ha scatenato il sospetto potesse trattarsi del primo test atomico iraniano.

È su questo scenario inquietante che, tra meno di un mese, si affaccia la nuova presidenza di Donald Trump. Per mantenere la superiorità atomica americana, e per recuperare almeno un po’ della deterrenza militare globale che Biden negli ultimi quattro anni ha letteralmente gettato alle ortiche, nei circoli della Difesa statunitense oggi prevale la tesi che Trump riattiverà parte delle circa duemila testate nucleari tenute in riserva nei depositi, e ne costruirà di nuove. Già nel suo primo mandato dal 2016 al 2020, del resto, Trump aveva deciso la modernizzazione delle forze nucleari strategiche. Con le due ultime amministrazioni democratiche, invece, l’America ha fatto molti passi indietro nel settore. Seguendo l’ideologia irenica di Barack Obama, che all’inizio degli otto anni del suo lungo governo 2009-2017 propagandava «un mondo senza bombe atomiche», anche Biden ha marginalizzato l’arsenale nucleare nel sistema di sicurezza degli Stati Uniti e dei loro alleati. All’opposto di Obama, che nel 2015 con Iran, Cina, Russia, Francia e Gran Bretagna aveva siglato l’Accordo congiunto globale Jcpoa, che in teoria avrebbe dovuto evitare la corsa all’atomica iraniana, Trump non ha mai mostrato alcuna fiducia nei negoziati sul controllo degli armamenti, che ritiene difficilmente verificabili: preferisce puntare sulla superiorità strategica. E non ha tutti i torti, visto che il controllo di solito è possibile solo quando non serve, e diventa impossibile quando invece servirebbe. Per questo nel 2018 Trump era uscito unilateralmente dallo Jcpoa, che nei sei anni seguenti si è poi dimostrato ingenuo, se non irrealistico.

E nel 2019 era uscito anche dallo Intermediate-range nuclear forces treaty con la Russia, accusando Mosca di averlo violato dislocando missili con gittata superiore ai 500 chilometri. A quel punto, il presidente repubblicano aveva dato pieno impulso alle difese antimissile e all’ammodernamento dell’arsenale nucleare, aggiungendo ai programmi del Pentagono una testata di potenza ridotta per missili balistici e un nuovo missile cruise nucleare navale: due programmi che sono stati poi cancellati da Biden. Gli esperti sono convinti che ora la nuova amministrazione Trump contrasterà la crescente influenza cinese nel Pacifico con nuove armi ipersoniche e con missili a medio raggio. Oggi il Pentagono schiera mille delle sue testate nucleari sugli enormi sottomarini, nascosti nelle profondità oceaniche, ed è quest’arma che garantisce agli Stati Uniti la vera deterrenza. Quindi è molto probabile che Trump accelererà il varo di nuovi sommergibili. Rientrato alla casa Bianca, il vecchio Donald probabilmente tirerà fuori dal baule anche la «dottrina del pazzo» usata nel primo mandato: la strategia dell’imprevedibilità. E un approccio nucleare più aggressivo potrebbe proprio essere il suo nuovo cappello.

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