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Il silenzio di Sabina, ovvero della tortura democratica negli anni Settanta

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Il silenzio di Sabina, scritto da Francesco Barilli e appena pubblicato da Momo edizioni, è un romanzo che deve molto alla realtà. Si sviluppa in un periodo storico male-detto e irrisolto, come Sabina condannato al silenzio, all’incomprensione o alla falsificazione, alla gogna e all’eterna dannazione: gli anni Settanta del secolo scorso  

«E siamo stati insorti, per mille anni o per un solo minuto, correndo dietro a quella particolare forma d’amore che “solo noi sappiamo pronunciare”» (Stefano Tassinari, L’amore degli insorti)

Il silenzio di Sabina, scritto da Francesco Barilli e appena pubblicato da Momo edizioni, è un romanzo che deve molto alla realtà. Si sviluppa in un periodo storico male-detto e irrisolto, come Sabina condannato al silenzio, all’incomprensione o alla falsificazione, alla gogna e all’eterna dannazione: gli anni Settanta del secolo scorso. Un lungo e tormentato decennio che non fu solo di piombo, come pretendono il mainstream e i vincitori, ma anche di sogni e di miraggi, di conflitti e di amori.
Amori come quello triste, solitario e finale tra Sabina e Alfredo, inesorabilmente segnato dalla sofferenza del vissuto, da ferite impossibili da archiviare e tali da precludere il futuro. Eppure, prima, nella realtà, in quegli anni ve ne furono anche di gioiosi, collettivi e nascenti, alimentati dalla fiducia nel domani e dalla determinazione a costruirlo invece di subirlo. Amori spesso brevi e al tempo stesso intensi e luminosi come saette. Gli uni e gli altri così profondi da non poter più essere dimenticati. Amori che trovavano radici e altezze in un continuo processo di liberazione – ancor oggi aperto – e in una rivoluzione vincente, quella delle donne, che aveva trasformato – non senza accanite resistenze – il personale in politico, sovvertendo convenzioni e tradizioni, affermando nuove soggettività, rivendicando diritti e poteri. Per dirla con le parole di Tano D’Amico, riferite al 1977: «La bellezza femminile fu splendida e luminosa quell’anno. Una bellezza nuova che non voleva compiacere nessuno. Cambiò il sorriso, lo sguardo, il gioco. Anche il pianto e il lutto, che vennero presto». Così, nella finzione, è stato per Alfredo che ci consegna, come in un diario, la cronaca e i fotogrammi di un amore ormai distante, che non è mai stato davvero possibile. Allo stesso modo è stato per Sabina, «una di quelle persone che il destino si diverte a prendere a pugni in faccia», per sempre segnata dalle torture subite dopo l’arresto e dall’uccisione del suo compagno di vita e di lotta Fabrizio, prima ferito e poi finito in un conflitto a fuoco con i carabinieri. Qui risiede indubbiamente il merito maggiore di questo veloce, e a tratti commovente, racconto di Barilli: il coraggio di aprire uno squarcio nel muro di gomma, e di granito assieme, del non detto, delle verità nascoste di cui si compone la storia ufficiale di quel decennio. I cui protagonisti statali – allora magistrati, militari e uomini di governo, ora, da pensionati, editorialisti dei maggiori quotidiani – a tutt’oggi ripetono la litania bugiarda sul terrorismo sconfitto senza deroghe allo Stato di diritto. Una menzogna attorno alla quale da subito, all’epoca dei fatti, lo Stato ha fatto quadrato senza tentennamenti, sfilacciamenti o pudori. A partire dal ministro dell’Interno, il democristiano Virginio Rognoni, chiamato dalle interrogazioni del Partito Radicale e della Sinistra indipendente (da nomi illustri come Leonardo Sciascia, Stefano Rodotà, Pio Baldelli e da voci tenaci come quella di Marco Boato) a rispondere in parlamento sui casi di tortura. Lungi dal darne conto, nella seduta del 18 febbraio 1982, Rognoni esponeva e imponeva il codice omertoso di condotta: «… appare imprescindibile un dovere: il dovere, e insieme il diritto, di riaffermare una verità, che il governo ha condotto, conduce e condurrà sempre la lotta al terrorismo nell’ambito della legalità repubblicana e con tutte le garanzie democratiche». Il presidente del consiglio, il repubblicano Giovanni Spadolini, arrivò a definire le circostanziate e numerose denunce dei militanti torturati raccolte in un corposo dossier, quale strategia del terrorismo: una «ultima carta per accreditare l’immagine di uno Stato torturatore e seviziatore, tendenzialmente autoritario». Perfino il Capo dello Stato galantuomo, l’ex partigiano Sandro Pertini, avallò la linea di negazione e auto-assolutoria dei partiti e dei governi pro-tempore. In quel modo, sulle “torture democratiche” calò da subito un robusto muro di omissioni e di menzogne che resiste da quasi mezzo secolo, con rarissimi tentativi di incrinarlo da parte di coraggiosi e coscienziosi giornalisti, storici, scrittori, esponenti politici. E con un solo “pentito”: l’ex commissario ed ex torturatore Salvatore Genova, le cui confessioni e accuse a superiori e colleghi sono divenute pubbliche grazie al giornalista Matteo Indice su “Il secolo XIX” di Genova nel 2007 e, successivamente, al giornalista dell’“Espresso” Pier Vittorio Buffa nel 2012, senza che ciò abbia provocato la minima eco e reazioni nelle forze politiche, né tanto meno conseguenze e iniziative giudiziarie; del resto, lo stesso Buffa aveva documentato diversi casi di tortura già nel 1982, finendo perciò arrestato. Storie di guerra sucia tenacemente negate e nascoste che questo libro ci ricorda e ci riporta sotto forma di romanzo. Storie occultate e rimosse non più e non solo a garanzia di impunità, giacché gran parte dei responsabili e dei loro complici e mandanti sono ormai scomparsi (Salvatore Genova è deceduto nel luglio 2023, Virginio Rognoni nel settembre 2022), ma a imperitura tutela del silenzio e della verità di Stato. Affinché non si possa sapere e scrivere nei manuali di storia che lo Stato italiano aveva delegato la difesa della democrazia a un dirigente della questura messo a capo di una squadra di torturatori e soprannominato manzonianamente dai suoi superiori “professor De Tormentis”, al secolo Nicola Ciocia, e ai suoi tanti sodali ed emuli in divisa, coprendone poi all’estremo i reati compiuti e anzi tutelandone, a compenso, il buon nome e le carriere; tanto che alcuni li ritroveremo, saliti di grado, tra i torturatori alla scuola Diaz e alla caserma di Bolzaneto, a Genova nel 2001 dove, mentre si vessavano a sangue i manifestanti, i poliziotti inneggiavano al generale Pinochet, elogiati e coperti da ministri del tempo. Del resto, Ciocia era un signore che si faceva intervistare con un busto di Mussolini sulla scrivania e si dichiarava orgogliosamente «fascista mussoliniano». Assieme, e di conseguenza, si tratta di vicende negate e occultate affinché non si possa mai mettere in discussione o problematizzare la chiave interpretativa e ricostruttiva di quegli anni incentrata sulle categorie di “vittime” e di “carnefici”, che ha annichilito e allontanato ogni altro ragionamento e analisi di ordine invece storico, sociale, culturale e politico. E perché non si possa più dire, sapere, ricordare, trasmettere la memoria e l’ardire di pensare che quelli furono anni nei quali una parte di generazione composita e colorata – studenti, operai, ragazzi e ragazze dei quartieri, a decine di migliaia – ha cercato di cambiare il mondo. Anche a costo del sangue proprio e altrui, pur al prezzo di tragedie e sofferenze. Infine, coloro che avevano osato insorgere, anche “per un solo minuto”, sono stati violentemente sconfitti. Non pochi sono finiti uccisi, torturati, processati, imprigionati, esiliati, perseguitati, emarginati. Di loro si è perso il conto e negato il ricordo. Constatare quanto il mondo di oggi sia stato reso dai vincitori ancor più terribilmente disumano e ingiusto dovrebbe, se non altro, imporre di guardare con maggior indulgenza a quella stagione, agli errori e abbagli di quei giovani di ieri, invece tuttora condannati all’ergastolo della parola e alla dannazione perpetua. * Fonte/autore: Sergio Segio, Comune-info

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