L'”età dell’oro” di Trump potrebbe diventare il suo opposto. “Sopravvaluta la capacità Usa di violare lo status quo”
E se l’età dell’oro promessa agli Stati Uniti da Donald Trump si rivelasse in realtà il suo contrario (lasciando al lettore la scelta della sostanza più adatta per rendere l’idea)? Le pirotecniche dichiarazioni ed iniziative delle prime settimane nello studio Ovale possono stordire ma bisogna ricordare che il precedente del primo mandato non depone particolarmente a favore del presidente. Delle tante misure annunciate, molte sono risultate essere pasticciate, altre non sono mai state applicate, molte lo sono state in un modo che ha prodotto risultati opposti alle intenzioni, sia in economia che in politica estera. Come ha efficacemente sintetizzato l’esperto di politiche internazionali e docente di Harvard Stephen Walt, “Trump è riuscito ad aver torto anche quando aveva ragione”.
La prima amministrazione Trump, insomma, non ha brillato per competenze, capacità e risultati ottenuti. Forse proprio quello in cui sperava la Russia quando ha deciso di agire per influenzare le elezioni 2016. In fondo una leadership poco efficace per l’arcirivale americano è quanto di meglio Mosca possa sperare. E, probabilmente, neppure a Pechino si fasciano la testa. Trump alla Casa Bianca è un rischio ma è anche un’occasione per guadagnare altro terreno a danno degli Usa.
Il presidente americano sta provando a rigiocare, più convinto di prima, una partita che è ricca di incognite innanzitutto per il suo stesso paese. I dazi sono una bestia pericolosa, una volta liberata è difficile domarla. Possono portare vantaggi nel breve periodo ma, nel medio -lungo termine, tendono a produrre conseguenze inattese o opposte agli obiettivi di chi li introduce. “Nessuna ritorsione è l’ipotesi fondamentale, non detta e irrealistica, che viene fatta qui”, ha scritto sui social media la scorsa settimana Ernie Tedeschi, ex capo economista del Council Economic Advisers dell’amministrazione Biden.
Matteo Dian insegna all’Università di Bologna e nel 2021 ha pubblicato il libro La Cina, gli Stati Uniti e il Futuro dell’Ordine Internazionale. Spiega a IlFatto Quotidiano.it: “Trump ha una visione dell’ordine internazionale diversa dalle altre amministrazioni. I precedenti governi lo consideravano come un qualcosa alla cui creazione gli Stati Uniti hanno avuto un ruolo determinate e che, pertanto, è intrinsecamente a loro favorevole. E, in effetti, il ruolo internazionale del dollaro, l’Organizzazione mondiale del commercio e la rete di alleanze sinora hanno portato enormi vantaggi agli Stati Uniti. Pertanto Washington ne accettava quindi i vincoli e l’impegno per coltivare buoni rapporti con gli alleati”.
Sulla diversa visione del nuovo presidente, Dian continua: “Trump lo considera invece un ordine negativo ed oneroso per gli Stati Uniti ma credo che stia sopravvalutando la capacità degli Usa di violare lo status quo senza pagare costi economici e politici. Punta sui vantaggi nel breve periodo ma sottovaluta i danni nel corso del tempo e, tra questi, c’è pure il deterioramento delle relazioni internazionali bilaterali e multilaterali”. Il congelamento dei fondi dell’Usaid, l‘Agenzia statunitense per gli aiuti internazionali e storico strumento di “soft power” a stelle e strisce è stata una delle prime decisioni di Trump che va esattamente in questa direzione. Secondo il docente, l’atteggiamento di Trump si spiega, in una qualche misura, con la personalità del presidente e dei suoi consiglieri ma ha anche una ragione più strutturale. “Non tutti gli americani, come non tutti gli europei, sono stati avvantaggiati da quest’ordine internazionale e quelli che più hanno subito le conseguenze di delocalizzazioni e concorrenza di paesi esteri certamente hanno votato in maggioranza per Trump, chiedendo una discontinuità”.
Piccolo inciso. Che i ceti più svantaggiati e in difficoltà, orientino il proprio voto verso un presidente che è ostile a sindacati, ai sostegni ai disoccupati, all’ assistenza sanitaria pubblica e che, in passato, si è distinto soprattutto per politiche che hanno arricchito che già ricco era, è qualcosa su cui la sinistra, non solo statunitense, dovrebbe riflettere profondamente.
La condizione perché la politica muscolare di Trump possa avere successo è che gli Stati Uniti siano un paese ancora sufficientemente forte per imporre il suo volere al resto del mondo. E che gli altri paesi accettino di inchinarsi, volenti o nolenti. Ne sono un esempio i ricatti fatti all’Unione europea, per cui o compra più gas e armi dagli Usa, oppure subirà l’imposizione di tariffe sulle importazioni. Eppure l’Ue si sta già “impiccando” con prezzi energetici altissimi che sono l’effetto dell’aver rinunciato al gas russo a basso costo, sostituendolo con quello, ben più caro, che arriva via mare da Qatar e Stati Uniti (e dalla stessa Russia…).
Trump pensa di poter tirare la corda (o il cappio) ancora di più e, va detto, non è un’ipotesi irrealistica. “Quella dell’Ue è una situazione molto difficile”, ragiona Dian. “L’Europa, ci spiega, non ha un’autonomia strategica che le consentirebbe di fare a meno del ruolo militare svolto dagli Usa e, allo stato attuale, non sembra neppure esserci un consenso tra i paesi membri per perseguirla nel tempo”. Non è difficile capire come questo sbilanci il potere negoziale nettamente a favore della Casa Bianca.
Ci potrebbe però essere, con gradualità, una maggiore apertura verso Cina e paesi Brics. E questo, di certo, non va a favore di Washington. “Sinora, continua Dian, una delle carte che gli Usa hanno potuto giocare nel loro confronto con la Cina è stata la rete delle loro alleanze. Ora Trump, proprio mentre indica Pechino come il nemico, rischia di incrinare i rapporti con alleati storici come il Canada, la Danimarca e gli altri paesi dell’Unione europea”. Sempre Stephen Walt, ha osservato: “Trump non dovrebbe pensare di potersi comprare il mondo”. Da quando gli Usa erano l’indiscussa potenza egemone le cose sono cambiate. “Gli Stati Uniti non sono in declino in termini assoluti, ma lo sono in termini relativi”, sintetizza Dian.
Nonostante tassi di crescita economica (comunque tra il 4 e il 5%) e una demografia poco favorevole, la Cina resta una potenza in ascesa con una sfera di influenza che si è allargata ben oltre l’Asia. Un indicatore è particolarmente interessante. Nel 1999 tutti i paesi del Sud America, “il giardino di casa degli Usa”, avevano gli Stati Uniti come primo partner commerciale. Oggi questo vale soltanto Colombia, Ecuador e Paraguay mentre, per tutti gli altri, il principale “socio d’affari” è diventata la Cina.
Il paese asiatico ha ormai assunto una leadership globale in molte tecnologie avanzate, dalle auto elettriche e le tlc ai computer quantistici e a tutto quanto ha a che fare con le energie rinnovabili, incluso il controllo delle filiere degli elementi base. La recente vicenda della piattaforma di Intelligenza artificiale DeepSeek, oltre ad essere un promemoria di come le sanzioni a volte finiscano per produrre effetti opposti a quanto sperato, è l’ultima dimostrazione di come Pechino si sia molto avvicinata alla frontiera tecnologica e, in alcuni casi, la presidii.
Il prodotto interno lordo cinese vale 20mila miliardi di dollari, meno degli Stati Uniti ma cinque volte quello tedesco, il 35% della produzione manifatturiera mondiale è in Cina, il triplo rispetto agli Usa. La sua quota sul commercio internazionale è lievemente calata ma si è spostata su segmenti molto più “alti”. Qui vengono costruiti anche molti dei prodotti simbolo del “made in Usa”, come gli Iphone, e, per inciso, Tesla vi realizza il 40% dei suoi ricavi.
Ora gli Stati Uniti vorrebbero separarsi economicamente dalla Cina, che non è più un’opportunità (di delocalizzare a basso costo) ma è diventata un concorrente. Assistiamo così alla situazione paradossale in cui è Pechino a difendere la globalizzazione mentre gli Usa la rinnegano. “Per la Cina la presidenza Trump è qualcosa di ambivalente. Pechino di sicuro non apprezza l’instabilità che provoca. Tuttavia ha la possibilità di approfittare dell’indebolimento delle alleanze che ruotano intorno agli Usa, dopo che, con Biden, c’era stato un ricompattamento sotto l’ala di Washington”, ci dice il professor Dian.
L’economista Nouriel Roubini affida a X le sue considerazioni: “La Cina padroneggia l’Arte della guerra di Tzu, strategica e più orientata sul lungo termine rispetto all’ottusa Arte dell’affare di Trump”.
But with China it will be a different game of chicken as China will not let itself be bullied that way and play that make pretend Kabuki theater show. Xi/China has too much pride and has mastered Tzu’s Art of War that is more more strategic and long-term oriented than Trump’s… pic.twitter.com/0dToQ7mkqC
— Nouriel Roubini (@Nouriel) February 4, 2025
Cosa rischiano gli Stati Uniti se tutto dovesse andare storto? Il primo pericolo deriva dai dazi. Come si diceva, possono portare vantaggi nell’immediato e possono indurre alcune aziende a trasferire, o riportare, la produzione all’interno dei confini statunitensi. A questo punto però, o Trump peggiora drasticamente le condizioni salariali e le protezioni dei lavoratori americani, oppure il costo del lavoro è destinato a salire. Dunque o i proprietari accettano minori profitti o i prezzi dei beni aumenteranno.
Salirà pure il costo dei beni importati e, in caso di ritorsioni, le esportazioni americane tenderanno a scendere. Anche perché il probabile rafforzamento del dollaro renderà ancora meno convenienti all’estero i beni made in Usa. Quindi i pericoli sono quelli di avere un’inflazione in aumento, un deterioramento del potere d’acquisto delle famiglie, un rallentamento della crescita e dell’export e, di conseguenza, un ulteriore peggioramento dei saldi commerciali, ovvero il contrario di ciò che intende ottenere Trump.
Uno sfilacciamento delle alleanze internazionali sposterebbe inoltre gli equilibri un po’ più verso le altre potenze, Cina in testa. I Brics, sinora un’alleanza molto flessibile, eterogenea e lasca, potrebbero rinsaldare i loro legami e perseguire davvero il tentativo di creare un polo alternativo all’Occidente. Non si dimentichi che dopo l’assalto al Campidoglio del 2021 e dopo certi disimpegni mal gestiti a livello internazionale, gli Stati Uniti hanno già visto offuscarsi la percezione della loro affidabilità e la loro immagine di democrazia ben funzionante. Trump non sembra dare nessun particolare peso al fatto che un paese con cui intrattiene relazioni sia oppure retto da regimi autoritari. E ciò non gioca certo a favore di una ricostituzione dell’immagine americana. Messa alle strette, la Ue potrebbe fare persino qualche passo avanti nella sua autonomia strategica, premessa per emanciparsi dalla “sottomissione” agli Usa.
Infine c’è un fronte interno. Il tessuto sociale del paese è sempre più sfilacciato, la polarizzazione politica sempre più estrema, varie forme di disagio, da quelle legate ai disturbi alimentari alle sofferenze psichiche, in continuo aumento. Se si guarda agli annunci di Trump nessuna delle misure proposte sembrano capaic di lenire questi problemi ma, anzi, di esasperarli.
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