Vertice tra cinque Paesi arabi per rispondere al piano di Gaza voluto da Trump. Presente Abu Mazen
Un incontro a Riad per elaborare una risposta congiunta al piano di Trump per Gaza, che vorrebbe svuotare la Striscia dei suoi abitanti e ricostruirla sotto il controllo di Washington. Il summit è tra i leader di Arabia Saudita, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Giordania e Qatar e si svolgerà il 20 febbraio, una settimana prima del vertice della Lega Araba al Cairo, previsto per il 27. Tutti hanno già ribadito il rifiuto dello “sfollamento degli abitanti di Gaza” e del loro “trasferimento” fuori da questo territorio. Presenti al vertice anche il presidente dell’Autorità nazionale palestinese Abu Mazen o il suo primo ministro Mohammad Mustafa. Trump ha proposto di porre Gaza sotto il controllo degli Stati Uniti e di espellerne i residenti, trasformandola in una ‘Costa Azzurra del Medio Oriente’, dove ai palestinesi non sarebbe consentito fare ritorno. Il segretario di Stato americano Marco Rubio ha dichiarato che gli Usa sono aperti alle proposte dei Paesi arabi sul territorio, in linea col progetto della Casa Bianca, auspicando di poter discutere di queste idee durante il viaggio programmato in Arabia Saudita, Emirati Arabi e anche in Israele dopo la conferenza della sicurezza di Monaco del 14-16 febbraio.
La posizione di Israele e le tensioni con Riad – Per parte sua, Netanyahu spinge il futuro targato Usa della Striscia di Gaza e il “trasferimento volontario” dei palestinesi fuori dall’enclave infiammando la polemica con Riad, tra i più duri critici del piano di Trump: “I sauditi possono creare uno Stato palestinese in Arabia Saudita, hanno molta terra laggiù”, ha affermato polemicamente il premier israeliano in un attacco che allontana una normalizzazione con il Regno – che Riad lega indissolubilmente alla nascita di uno Stato palestinese – e che non fa bene alla fragile tregua in corso a Gaza. “C’era uno Stato palestinese, si chiamava Gaza. Gaza, guidata da Hamas, era uno Stato palestinese, e guarda cosa abbiamo ottenuto: il più grande massacro dall’Olocausto”, ha detto Netanyahu ribadendo la linea israeliana per la quale “non può esserci pace se Hamas resta”. Sulla possibilità di uno Stato palestinese come condizione per una normalizzazione dei rapporti con i sauditi, Netanyahu ha quindi negato la sua disponibilità a stipulare “un accordo che metta in pericolo lo Stato di Israele“. Dopo che l’attacco del 7 ottobre ha segnato una battuta d’arresto nel processo di distensione dei rapporti tra il Regno e lo Stato ebraico, Netanyahu ha dichiarato più volte di essere ancora impegnato per una pace tra i due Paesi: “Non solo penso che sia fattibile, penso che accadrà”, ha detto durante la sua visita a Washington. Ma Riad ha chiarito che non ha intenzione di stabilire legami con Israele senza garanzie sulla nascita di uno Stato palestinese, sottolineando che questa posizione non è negoziabile e condannando qualsiasi tentativo di sfollare i palestinesi dalla loro terra, proposta israelo-americana che ha scatenato dure critiche dai Paesi arabi ed europei.
In questo quadro, Israele tira dritto e continua a spingere il piano del tycoon, che nel frattempo ha chiarito come non ci sia “nessuna fretta” di dare concretezza alle sue idee, ribadendo che non ci sarà bisogno di schierare truppe Usa nella Striscia. Ma qualcosa si muove già: nei giorni scorsi il capo di Centcom americano, generale Erik Kurilla, è volato in Israele per incontrare il capo dell’Idf Herzi Halevi e fare il punto sulla situazione nella regione. Nel frattempo, il governo israeliano cerca di ridurre al minimo le voci critiche in patria: dopo aver ordinato di preparare un piano di trasferimenti “volontari” dei palestinesi da Gaza, il ministro della Difesa israeliano Katz ha messo in guardia funzionari e vertici militari dall’esprimersi contro il piano del presidente Usa, annunciando di aver ordinato di “rimproverare” il maggior generale Shlomi Binder, direttore dell’intelligence militare dell’esercito, per aver segnalato la possibilità di un aumento dei disordini in Cisgiordania dopo le parole di Trump. “Non sono contro il piano Usa”, ha successivamente chiarito Binder. “In virtù del mio ruolo, ho solo presentato le possibili implicazioni sull’argomento”.
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