Referendum sul lavoro? Qualche lettura per riscoprire ritrovare lo spirito combattivo di una volta
Il Jobs Act di Matteo Renzi non ha aumentato l’occupazione, non ha migliorato le retribuzioni e non ha ridotto il livello precarietà nel mercato del lavoro, premessa per maggiori tassi di sfruttamento. I referendum promossi da Cgil e Uil puntano ad avviare un percorso di graduale smantellamento di quella deludente riforma. Nulla di particolarmente “aggressivo”, il minimo sindacale, è proprio il caso di dire. Eppure persino queste timide rivendicazioni sembrano al giorno d’oggi, rappresentare chissà quali richieste.
In passato, conflitti ben più aspri hanno consentito ai lavoratori italiani di conquistare i diritti e le tutele che misure come il jobs act, ma non solo, stanno smantellando poco a poco. Gli sforzi e le battaglie dei lavoratori trovarono il loro coronamento con l’entrata in vigore, nel 1970, dello Statuto dei lavoratori che includeva il famoso art.18 sul reintegro in caso di licenziamento illegittimo, ora di fatto abolito. Lo Statuto venne definitivamente approvato al Senato la mattina del 12 dicembre del 1969. Nel pomeriggio di quello stesso giorno ci fu la strage fascista di piazza Fontana, a Milano.
Sappiamo che tante cose sono cambiate, in Italia e nel mondo. Tra queste c’è anche una progressiva perdita del potere contrattuale dei lavoratori, specie quelli delle mansioni più colpite dalle delocalizzazioni. Ma non è solo questo. E molti di coloro che sono da qualche anno nel mondo del lavoro, sono cresciuti in un contesto culturale radicalmente diverso. Lo sintetizza, con grande efficacia, il sociologo Giulio Moini nel suo libro Neoliberismo, uscito nel 2020.
Scrive Moini, riferendosi ai giovani a cui insegna all’università: “(…)Hanno, nella maggior parte dei casi, acquisito in modo inconsapevole e incolpevole quello che è stato definito un “habitus neoliberista”, in virtù dei quali i valori e le pratiche di questo complesso insieme di pensiero si sono destoricizzati e sono diventati per molti versi indiscutibili. Un habitus che ha reso la “società della prestazione” un dato di natura. La precarizzazione dei rapporti del lavoro, la competizione, l’atomismo sociale, la riduzione dei sistemi di protezione sociale, e molti altri fenomeni direttamente o indirettamente legati al primato del paradigma neoliberista, sembrano degli assoluti astorici”. Pare perduto persino un concetto basilare, ovvero che chi ci dà un lavoro lo fa fondamentalmente per una ragione: ovvero che la nostra opera contribuisce ad aumentare la sua ricchezza.
Raul Vaneigem ha scritto nel suo Noi che desideriamo senza fine (edizione Bollati e Boringhieri) che “Il lavoro è la cosa migliore che abbiamo inventato per non fare nulla della nostra vita”. Al di là della formulazione provocatoria, si tratta di una considerazione meritevole di una riflessione approfondita. La dimensione professionale è diventata quella in cui si investono più energie, fisiche e mentali, a cui è dedicato gran parte del nostro percorso formativo, quella in cui si misura un presunto “successo”, anche come individui. Qualcosa che finisce per sovrastare tutto il resto, ossia la vita. Marguerite Yourcenar fa dire al “suo” imperatore Adriano: “Si possono immaginare forme di schiavitù peggiori delle nostre, perché più insidiose: sia che si riesca a trasformare gli uomini in macchine stupide e appagate, che si credono libere mentre sono asservite, sia che si imprima in loro una passione forsennata per il lavoro”. Riecheggiano le parole di Bertrand Russell: “”L’etica del lavoro è l’etica degli schiavi, e il mondo moderno non ha bisogno di schiavi”.
Sebbene qualche segnale differente sembri arrivare dalle generazioni più giovani, è indubbio che il tono delle rivendicazioni appaia oggi molto addomesticato. Questo può essere un problema anche per le imprese, visto che le lotte dei lavoratori spingono le aziende a migliorare modalità e qualità della loro produzione e a non adagiarsi sul basso costo dei dipendenti. Non è un caso che la produttività italiana sia apatica da anni. Ecco allora alcune letture che possono restituire lo spirito e l’energia delle lotte del passato e contestualizzare storicamente quel che si chiede oggi.
Il primo è Vogliamo Tutto di Nanni Balestrini, uscito per la prima volta nel 1971 e oggi disponibile nell’edizione di Derive e Approdi. Narrato in prima persona, è forse la testimonianza più efficace dei fatti dell’autunno caldo del 1971 a cui è ispirato. Ecco un passaggio: “Non è giusto fare questa vita di merda dicevano gli operai nell’assemblea nei campanelli alle porte. Tutta la roba tutta la ricchezza che produciamo è nostra. Ora basta. Non ne possiamo più di essere della roba, della merce venduta anche noi. Noi vogliamo tutto”. Interessante anche per le scelte linguistiche, il libro ripercorre la vicenda di un ragazzo meridionale che si trasferisce al Nord per lavoro e alla fine approda come operaio in una Fiat “in ebollizione”. Un percorso accompagnato da una progressiva presa di coscienza del grado di sfruttamento e di “perdita di vita” che comporta il lavoro in fabbrica: “Gli viene portato via il tempo libero della sua giornata tutta la sua energia” (…) “Questa è una vita di merda sono più liberi quelli che stanno in galera di noi. Qua incatenati a queste macchine schifose che non ci possiamo mai muovere coi secondini tutti intorno” (…) “Il lavoro che diventa quasi un premio un regalo che i padroni ci fanno. A farci venire a dormire nelle stazioni o a mucchi in una stanza con affitti da rapina”.
Un altro bel volume è E quel maggio fu rivoluzione, scritto da Angelo Quattrocchi nel 1968. È il racconto degli avvenimenti del maggio francese, degli scioperi, delle manifestazioni e delle lotte degli studenti parigini. “Questa è la storia della rivoluzione che ebbe luogo a Parigi nel mese di maggio del 1968. Le rivoluzioni sono l’estasi della storia, momenti in cui la realtà sociale e il sogno si fondono: un atto d’amore. (…) Le speranze di un nuovo sistema sono ormai molto più forti delle paure quotidiane che l’eterna ingiustizia genera in tutti”, esordisce Quattrocchi. Al centro delle rivendicazioni studentesche ed operaie c’è anche il rifiuto delle logiche competitive e di un grado di sfruttamento che consuma la vita: “..nascono i comitati d’azione che cominciano a discutere come davvero si possa lavorare senza la paranoia, la sofferenza, l’enorme spreco di energie e la fatica che il sistema del capitale chiama efficienza e pretende come necessarie”. Vengono citate frasi prese da Ta-Tze-Bao (manifesti) appiccicati nelle università e nelle fabbriche: “Grazie agli esami e ai professori la la competitività comincia a sei anni”, recita la prima menzionata nel libro.
Una decina di anni dopo, a Bologna, prendono vita le esperienze di Radio Alice e della rivista A/traverso, fondata da un collettivo capitanato da Franco ‘Bifo’ Berardi, tra le voci più rappresentative del Movimento del ’77. Per la loro originalità di contenuti e linguaggio e per la loro rappresentatività dello “spirito della contestazione”, copie della rivista sono confermate anche nella libreria dell’Università di Yale). È la seconda ondata contestativa, l’autonomia operaia che ha tra i suoi pensatori di riferimento anche i francesi Guy Debord, Michel Foucault, Gilles Deleuze e Felix Guattari (di questi ultimi due il testo più rappresentativo per i contestatori è “L’anti Edipo. Capitalismo e schizofrenia).
Tutta questa storia è raccontata con dovizia di particolari e approfondite analisi nel libro “La rivoluzione è finita, abbiamo vinto. Storia della rivista A/traverso”, di Luca Chiurchiù (edizioni Derive e Approdi). “Il gruppo bolognese è convinto che , dato il dispiego massiccio delle macchine, il capitale mantenga ancora intatto il suo dominio e il suo processo di valorizzazione soltanto grazie allo stretto controllo sui tempi di sfruttamento. Di qui il famoso slogan della rivista: Lavorare tutti ma pochissimo”, si legge nel libro di Chiurchiù. Alle stesse vicende è dedicato il film “Lavorare con lentezza”, di Guido Chiesa, uscito nel 2004.
Una breve ma preziosa lettura è Fine del Lavoro di Sergio Bologna, storico del movimento operaio. È una raccolta di interventi sull’attuale situazione del mondo del lavoro e le sue criticità. Contiene riflessioni sul deterioramento della condizione lavorativa oltre a suggerimenti, rivolti innanzitutto ai giovani, affinché comprendano quella che è la loro condizione, le ragioni per cui è tale e le strategie da adottare per migliorarla. Citiamo un passaggio significativo: “Le diseguaglianze si possono lenire coi pannicelli caldi della carità cristiana o del volontariato laico ma si possono superare solo con il conflitto. Perché la storia insegna che solo dopo un conflitto la macchina statale si mette in moto per escogitare forme di riduzione delle diseguaglianze”.
Infine, Vive la Commune! Rifiuto del lavoro e diritto all’ozio, di Franco Bifo Berardi (ed. Derive e Approdi). È una acuta riflessione su quanto detto sinora, sul cannibalismo del lavoro nei confronti della vita. Un sacrificio oggi accettato senza troppi mugugni da molti, salvo poi ritrovarsi a . È un libro che prende spunto dall’esperienza e dalle istanze dell’esperimento sociale parigino del 1870 per applicarle all’oggi, ribaltando molti proclami del pensiero neoliberista.
Si prende l’esempio dei vaccini contro il Covid e la giustificazione per gli alti prezzi imposti dalle case farmaceutiche che hanno concesso loro di incassare miliardi e miliardi di dollari o euro. “Le corporation hanno diritto di ricevere un profitto a pagamento del lavoro che hanno fatto?” si chiede Berardi. La risposta: “Non è vero. Le corporation sono composte da azionisti, capitalisti, signori che non hanno mai letto una pagina di biologia, virologia, ingegneria genetica nè di tutte la altre cose che hanno permesso a dei ricercatori con il grembiule e uno stipendio di duemila, tremila, quattromila euro di produrre il vaccino. Le innovazioni tecniche non sono un regalo del profitto e dei profittatori sono il prodotto del lavoro di scienziati e ricercatori, dei proletari della conoscenza a cui non importa nulla che il loro salario sia pagato da Pfizer, da una comunità agricola o da uno stato nazionale“.
Il libro contiene anche il saggio “Il diritto all’ozio” di Paul Lafarge. Un passaggio: “Finché la mano d’opera si offre a basso costo se ne fa spreco, si cerca di risparmiarla se i suoi servizi diventano più costosi”
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