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Simone Moro: “L’attacco cardiaco a 5 mila metri sull’Himalaya? Non mi ha tradito il cuore, ma la presunzione. Ho fatto un errore imperdonabile, in vetta non mi sarei salvato”

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A 5.000 metri di quota, senza soccorsi e con il buio che scendeva sull’Himalaya, Simone Moro ha capito di essere a un passo dalla morte. Non per una valanga o una caduta, ma per una crisi cardiaca. Questa volta non è stata una vetta a tradirmi, ma la presunzione della mia esperienza”, racconta oggi in un’intervista a Repubblica, dopo l’ultimo controllo medico a Bergamo. L’aorta coronarica sinistra, colpita il 12 dicembre ai piedi del Mera Peak, è tornata pulita. La paura, invece, resta nitida.

Moro, 58 anni, 37 spedizioni in Himalaya, quattro prime invernali sugli Ottomila, ricostruisce con precisione ciò che è accaduto. Il 10 dicembre aveva raggiunto la vetta del Mera Peak, a 6.476 metri, come allenamento per la prima invernale del Manaslu. “Il tempo era bello, mi sentivo bene. Con Nima Rinji, uno sherpa di 19 anni, siamo saliti molto velocemente”. La discesa è rapida, l’idea è quella di restare in quota per acclimatarsi. “Come sempre, la botta arriva quando tutto appare calmo”. Due giorni dopo, nel lodge del villaggio più alto, il dolore improvviso. “Alle 16.30 sono andato in bagno e un dolore al petto, esteso al braccio sinistro, mi ha piegato in due. Ho capito che il cuore non pompava più abbastanza sangue”. Moro chiama un elicottero per i soccorsi, ma è troppo tardi: mancano venti minuti al buio, servirebbe mezz’ora per raggiungerlo. “Il pilota ha detto che non si poteva fare. È stata la lezione più importante degli ultimi anni”.

La notte passa senza assistenza, a 5.000 metri. “Il dolore lentamente è diminuito. Ho capito che non era un infarto completo e nemmeno un ictus. Non potevo fare altro che aspettare, sperando che la carenza di ossigeno non bruciasse troppe cellule cardiache”. Un’attesa lunga, segnata dai ricordi degli incidenti passati. Solo la mattina del 13 dicembre un altro elicottero riesce a portarlo a Lukla, poi a Kathmandu. “Sono arrivato in ospedale guidando io l’auto. Ho salito a piedi cinque piani di scale fino alla cardiologia. Il medico non voleva crederci”. La diagnosi è netta e Moro se ne assume tutta la responsabilità. “Colpa mia, superficialità. Non ho bevuto abbastanza, mi sono disidratato. In alta quota il sangue diventa più denso: se non bevi, rischi che si formi un coagulo”. È quello che è successo: “Un micro-coagulo ha parzialmente ostruito un’arteria. Errore imperdonabile. Se fosse successo in vetta, non mi sarei salvato”.

A Kathmandu l’intervento è rapido. “La sonda ha raggiunto facilmente il blocco e l’anticoagulante ha funzionato. Sono stato subito meglio”. Moro respinge le ricostruzioni più drammatiche circolate nei giorni successivi: “Ho letto un sacco di sciocchezze. Non stavo morendo”. E aggiunge, senza nascondere una punta di ironia amara: “Nel nostro ambiente c’è anche chi gode se qualcuno sta male. Mi dispiace: tra quattro settimane torno ad allenarmi”. Il Manaslu resta un obiettivo aperto: “La prima invernale in stile alpino è solo rinviata. Il prossimo autunno spero di ritentare, per la settima volta”. Per lui non è un’ossessione, ma una chiusura di cerchio. “Le invernali senza ossigeno e senza corde fisse sono l’ultimo muro dell’avventura. In un alpinismo travolto dal turismo industriale, è l’unica rinascita possibile”.

C’è anche un messaggio più ampio, legato al cambiamento climatico. “Sulle montagne come negli oceani, gli effetti del riscaldamento globale sono evidenti. Dove dieci anni fa mettevo i ramponi a 6.000 metri, oggi li metto a 7.000”. Per Moro, esplorare significa ridurre l’impatto: “O si accetta uno stile essenziale, oppure l’esplorazione diventa immorale”. Non lo fa per lavoro, precisa: “Pago tutto di tasca mia. Salgo per amore della lontananza”. E il Natale che arriva segna una novità assoluta. “Lo passerò in famiglia. Mio figlio più piccolo ha due anni: non capisce perché a dicembre sono a casa. L’Ottomila più pericoloso è vivere con gli altri”.

L'articolo Simone Moro: “L’attacco cardiaco a 5 mila metri sull’Himalaya? Non mi ha tradito il cuore, ma la presunzione. Ho fatto un errore imperdonabile, in vetta non mi sarei salvato” proviene da Il Fatto Quotidiano.




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