Non c’è bisogno di nascere ribelli per fare la rivoluzione. Liu Bolin era un bambino giudizioso. «Disegnavo. Tutto il giorno. Non avevo altro per la testa». Oggi è un adulto diventato famoso per le sue proteste silenziose. È l’uomo camaleonte, «The invisible Man». Si nasconde nello sfondo delle scene delle sue opere, diventando tutt’uno – grazie a infine sedute di camuffamento – con il fondale. Prima c’è la performance, poi c’è la foto che fissa l’attimo. Così Liu Bolin attira l’attenzione sui temi che gli interessano: i cambiamento climatici, l’eccesso di consumismo. La sua invisibilità l’ha reso famoso e le sue esibizioni lo portano ovunque nel mondo. In queste ore è a Milano, invitato da Montenapoleone District per celebrare il capodanno cinese: con una mostra fotografica allestita in via Montenapoleone (fino al 10 febbraio) e per creare la sua prossima opera d’arte. Con la Pietà di Rondanini di Michelangelo, al Castello Sforzesco di Milano, ultima della serie "Hide in the City", che segue quella di pochi giorni fa alla Galleria Borghese di Roma.

Come passa il tempo quando non staziona dentro una sua opera d’arte?
«Vivo a Pechino e giro per il mondo. Diciamo sei mesi qua e sei mesi in tour. Se sono libero, mi godo quello che ho: la mia famiglia. Ho due figli».
Giocate a nascondino?
«Oh sì. Ma non vince mai veramente nessuno».
Era un contestatore da piccolo?
«No, proprio no. Ero occupato a lasciare il segno sulle pareti di casa: non studiavo ancora arte, ma mi interessavano solo album e matite. E ho continuato a lungo così».
Quindi ha cambiato modalità perché il governo ha deciso di abbattere il villaggio dove aveva il suo studio.
«Mi sono diplomato all’accademia d’arte nel 1994. La mia prima performance è del 2005. Quello in mezzo è stato il tempo necessario per fare esperienza, per capire che tipo di arte volevo fare, per trovare le cose giuste da dire».
E mentre lei sviluppava la sua visione, la Cina cambiava a tripla velocità.
«Il mio lavoro è diviso tra un prima e un dopo: la data è quella delle Olimpiadi del 2008. Prima, sembrava andare tutto bene, poi la collettività ha iniziato ad avere dei sospetti. Ad esempio, a proposito del cibo: ci sembrava sicuro, ma a un certo punto abbiamo capito che non era così».
Che cosa desta adesso la sua preoccupazione?
«L’acqua».
Più di Donald Trump?
«Ah ah, non so, diciamo che è differente».
Fa bene il mondo a guardare con timore la Cina?
«La crescita del nostro Paese è stupefacente. Se sia una cosa buona o cattiva, è difficile affermarlo con nettezza».
Cambia il suo modo di guardare la Cina quando si muove all’estero?
«Mi muovo in molti Paesi, tra culture e lingue molto differenti. Tutto questo mi procura emozioni contrastanti se penso alla Cina».
Cosa cambierebbe, se ne avesse il potere?
«Uso il mio lavoro per parlare di quello che non mi piace, come le emergenze ambientali. Ma non sono uno da azioni dirette».
Come sceglie la scena del suo prossimo lavoro?
«È un flash, può arrivare in molti modi. Da qualcosa che mi viene raccontato. Che vedo. La Pietà di Rondanini è l’ultima opera di Michelangelo: la conosco dai tempi del college e trovo che abbia un legame con la scultura che faccio io. Quindi sono felice di essere qui. La prossima sarà, credo, in Cina».
Come fa a stare immobile così a lungo durante la performance?
«Faccio molto sport. Corro. Salto».
Vista da fuori, sembra piuttosto una forma di meditazione.
«Respiro: tutto qui».
Ieri, oggi, domani: quale preferisce?
«Il presente e il futuro. Come artista oggi sono già fortunato, ma domani vorrei essere un bravo scultore. Ci sto lavorando. Diciamo che è la mia sfida per il futuro».
Che cosa insegna ai suoi figli?
«A giocare. È la lezione più importante della vita: imparata quella, il resto arriva».