«È uno dei registi più brillanti con cui ho lavorato, a livello dei fratelli Coen e di Steven Soderbergh. E migliora con ogni film, lo odio». Così la pensa George Clooney a proposito di un ragazzo cresciuto con l'autore di Ghostbusters in casa.

Nato a Montreal 41 anni fa, ma diventato adolescente fra Los Angeles e dintorni, Jason Reitman avrebbe voluto fare il medico e lo ha comunicato al padre Ivan. Ma papà, slovacco naturalizzato canadese di origine ebree, che ha diretto e prodotto alcune fra le commedie di maggior successo degli anni Ottanta e Novanta, gli ha fatto cambiare idea. Così è finito dietro la macchina da presa, prima a far satira sul mondo del tabacco con Thank You For Smoking, nel 2005, poi a raccontare il dramma di una gravidanza teen in Juno, ma anche a scavare nei costi umani della crisi economica con relativi licenziamenti aziendali in Tra le nuvole. E sono state subito candidature agli Oscar e vittorie ai Golden Globes. Ma nonostante tutto questo, Jason Reitman resta un tipo che non se la tira, nemmeno adesso che ha per le mani un progetto cult come la direzione del prossimo Ghostbuters (per la gioia di papà). L’amico del liceo e direttore della fotografia dei suoi film Eric Steelberg conferma, confidandoci che Jason preferisce ancora dargli appuntamento al vecchio baracchino dei tacos, piuttosto che al ristorante elegante dietro l’angolo. E il maglione in cashmere portato su jeans blu che indossa all’anteprima del suo ultimo lavoro lo conferma.

The front Runner- Il vizio del potere, di cui è regista e co-sceneggiatore, è basato sul libro All the Truth is Out del giornalista del New York Times Matt Bai. Racconta l’ascesa e la caduta del fuoriclasse democratico Gary Hurt, l’uomo che nel 1987 ha corso per la campagna presidenziale Usa ma ha dovuto ritirarsi perché coinvolto nel primo caso di scandalo sessuale (mal gestito) che ha cambiato le sorti della politica Usa.
Nelle sale dal 21 febbraio, con un grande Hugh Jackman nei panni di Hart, affiancato dal premio Oscar J.K. Simmons, Alfred Molina e Vera Farmiga.

Conosceva la storia del senatore del Colorado Gary Hart?
«Non sapevo chi fosse, avevo 10 anni quando ha corso per la presidenza. Ma quando ho sentito la sua storia ho subito rintracciato i semi di come siamo arrivati fin qui. Ho ordinato il libro e ho sentito che era un film da girare, e mi è capitato poche volte di essere pronto a saltare in sella».

Perché la vicenda l’ha interessata così tanto?
«Semplificando molto, diciamo che Gary Hart è andato a una festa, ha incontrato una donna, fra loro c’è stata chimica e l’ha invita a casa sua a Capitol Hill. un essere umano rimasto intrappolato in un’attrazione chimica. La mia domanda non è se qualcuno, in questo caso un candidato alla presidenza Usa, ha commesso o meno un adulterio, ma è: questo fatto ci deve interessare o no? è importante? In quel momento l’intrattenimento e il gossip sono stati messi allo stesso livello del giornalismo politico, questa vicenda ha marcato la fine della separazione fra tabloid e discorsi politici, col risultato che Hart, che aveva ottime qualità per esser eleggibile, si è ritirato dalla politica ed è stato sostituito da Michael Dukakis, poi battuto da George Bush senior. In altre parole, se la stampa avesse preso decisioni diverse oggi avremmo un altro mondo».

I Kennedy, o Lyndon Johnson, non sono mai stati disturbati in questo senso...
«Con Gary Hart i parametri sono cambiati, e negli anni Settanta è anche iniziato il sistema primario, all’improvviso la capacità di scegliere i candidati è passata nelle mani dei cittadini, che volevano sapere chi avevano davanti. È diventato compito dei giornalisti raccontarlo, e la domanda successiva è stata “cosa volete sapere?” Per quanto mi riguarda, stiamo ancora cercando di capirlo oggi».

I suoi film dicono chiaramente che a lei interessa molto il meccanismo dell’errore umano. Perché?
«C’è qualcosa di più interessante, nella vita? Cerco di capire me stesso e le persone che ho intorno, e oggi abbiamo un grande allenamento a nascondere i nostri difetti: tutto quello che nascondi è ciò che io cerco. Ho delle domande, innanzitutto sui miei di difetti, e probabilmente queste mi interessano più della narrativa».

Suo padre è stato l’ispirazione del suo diventare regista?
«Più che un’ispirazione è stato lui a convincermi. Stavo pensando di fare lo psicologo, avevo 17 anni quando mi ha detto “stai scherzando, vero?”.

Come gli ha risposto?
«Chiedendogli perché mai avrei dovuto vivere nella sua ombra o fallire alla luce del sole. Ha insistito, sostenendo che essere spaventati non era una buona ragione per non fare qualcosa, e mi ha convinto. Credo di aver avuto il primo padre ebreo della storia a dire a un figlio “non diventare medico, fai il regista!”».

Gli ha mai chiesto perché non voleva un figlio psicologo?
«Veniva da una famiglia povera, a 17 anni voleva aprire un sandwich shop a Toronto e mio nonno gli ha detto “potresti avere molto successo, ma non c’è magia in quello che farai, trovati qualcosa che ne abbia almeno un po’…”. Così ha aperto un film club, poi ha iniziato a fare film. Insomma, ha fatto lo stesso con me, voleva mi dedicassi a qualcosa di più magico della medicina».

Occuparsi degli esseri umani, con l’angolazione giusta, può essere magico...
«Credo di aver trovato il mio modo di unire le due cose. È tutta psicologia, quella dei personaggi, quella degli attori, della troupe, devi capire come ottenere il meglio da tutti, il mio lavoro è un costante desiderio di comprendere il comportamento umano».

A quanti anni se n’è andato di casa?
«A 16, sono andato a vivere con la mia fidanzata che ne aveva 26, siamo stati insieme per sette anni. Ha avuto un’enorme influenza su di me».

Sua madre che tipo di donna è?
«Molto forte e molto divertente, il senso dell’umorismo dark che mi ritrovo viene da lei, anche se credono tutti che sia di mio padre. Lui è un grande narratore, ma se si sedesse qui non riuscirebbe a farla ridere, mia madre sì».

La cosa più divertente che ricorda?
«Faceva sempre fare un gioco a me e ai miei fratelli. Dovevamo iniziare una storia, creare un personaggio e nel mezzo dell’azione ucciderlo, e ripartire con un nuovo personaggio. Iniziava lei e diceva “c’è questo gruppo di persone, succede questo e quello, poi vanno a fare un viaggio, una persona li guida fino in cima a una scogliera… E li butta tutti giù!”. Andavamo avanti per ore, mia madre è franco canadese, ha un senso dell’umorismo molto preciso. Incontrare un ebreo ortodosso come mio padre, per lei che era atea, è stato un conflitto interessante. E io sono figlio di questi due personaggi, porto un conflitto interessante dentro di me».