Quegli oggetti dei morti in fondo al mare. To whom it may concern
È sempre curioso, sapere cosa fanno le persone prima di andare incontro alla morte. Gli eritrei si riempiono un sacchetto con la terra della loro patria. Altri si gonfiano le tasche con documenti che attestino la loro serietà. Una volta un ivoriano 18enne fu trovato cadavere con cinque documenti in tasca: la carta d’identità, il passaporto, una scheda della biblioteca dell’università, una tessera sportiva e pure quella da donatore di sangue. Una donna aveva nella borsa un foglio dell’agenzia Onu Unhcr. Il testo finiva dicendo che era una «rifugiata richiedente asilo» e che doveva essere protetta. Ma iniziava nel modo più freddo e commovente possibile: «To whom it may concern». Burocraticamente: «A chi di competenza». Letteralmente: «A chi potrebbe preoccupare». To whom it may concern.
Un ragazzo del Mali, prima di partire aveva ripiegato e nascosto nella tasca interna del giubbotto una pagella, con i voti delle materie scritte in arabo e francese. È morto annegato il 18 aprile 2015, nel più grande naufragio civile avvenuto dal dopoguerra nel Mediterraneo. Il mare nostro è talmente grande da meritarsi una giornata: la giornata mondiale del Mediterraneo, 8 luglio. La giornata del più grande cimitero aperto del mondo.
Dal 2001 a oggi sono circa 30 mila quelli annegati, quasi sempre su barconi che partivano dal Nord Africa e puntavano dritto a noi. Vengono da Afghanistan, Marocco, Siria, Guinea, Mali, Iraq. L’anno peggiore è stato il 2016, con 5.096 morti: 13 annegamenti al giorno. Uno ogni due ore. I morti in mare non muoiono neppure velocemente, ma per asfissia. Perdono ossigeno in modo lento e costante, per cinque, sei minuti, fino alla morte. Un’eternità. Dall’inizio del 2019 i morti sono stati «solo» 666, di cui 127 recuperati. Perché in media due cadaveri su tre rimangono in fondo al mare, a putrefarsi.
Di loro ci restano, quando riusciamo a riportarli su, gli oggetti che si erano portati da casa. Sono portafogli, collane, foto di famiglia, che rappresentano le loro ultime scelte, gli ultimi gesti, e raccontano di loro e anche un po’ di noi. Colpiscono più dei volti. Perché «mentre le facce sono chiaramente “di altri”, molti degli oggetti potrebbero facilmente essere i nostri: un giocattolo di tua figlia, un maglione di tuo padre», racconta l’anatomopatologa Cristina Cattaneo nel suo bellissimo Naufraghi senza volto (Raffaello Cortina Editore, 198 pagine, 2018).
È stata lei a trovare per esempio la lettera dell’Unhcr che quella donna si era messa nella borsetta, prima di morire in fondo al mare: dentro quella borsetta c’erano anche «numeri di telefono scritti con la biro blu e delle cifre, alcune spuntate, come se rappresentassero una sorta di lista delle spese e sotto, in inglese, in maiuscolo, “gift”, regalo. E poi decine di documenti e fotografie in bianco e nero rappresentanti il volto di una giovane donna con capelli lisci, neri, la riga in mezzo, che sorrideva timidamente all’obiettivo; a volte insieme a lei si vedevano sullo sfondo altri giovani. Dietro, il nome Teraje scritto a mano».
Per la cronaca il corpo di Teraje, la chiameremo così, giace in un cimitero della Sicilia senza un’identità certa; quelli nelle foto con lei forse sono morti assieme a lei, forse sono vivi in una parte dell’Africa e si chiedono che fine abbia fatto la loro cara, che ancora non ha chiamato. E vorrebbero sapere dove riposa. To whom it may concern.
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