Poke mania, le bowl hawaiane sono il cibo del momento più richiesto nelle consegne a domicilio: ecco di cosa si tratta
Variopinto, fotogenico, protagonista sui social, è il cibo più trendy e gettonato nelle consegne a domicilio. Chiamalo come vuoi, poké bowl o poké hawaiano, o anche sushi poké. Più semplicemente, nelle chiacchiere quotidiane, Poké. Il piatto dei pescatori dell’isola di Honolulu, piatto povero per eccellenza, diventato la moda gastronomica del momento a Milano e nelle città cosmopolite. La base: riso, pesce crudo, verdure, frutta tropicale e salse, tutto tagliato a cubetti, come suggerisce l’etimologia del nome. Poi una sarabanda di variazioni sul tema a seconda dei gusti, delle proposte per caratterizzare i locali e delle strategie commerciali di promozione. C’è persino la versione mediterranea, con frutta di stagione, pesce e verdure del territorio e la versione veg. Risultato: il Poké piace sempre di più. Spopola e conquista le città italiane.
Da Rimini a Milano, da Roma a Bologna, da Genova a Catania. Grazie al suo gioco di abbinamenti fai da te, che moltiplica di volta in volta le possibilità, incontra il gusto di un pubblico sempre più vasto abituato negli anni alle proposte gastronomiche in arrivo dall’estero. Superfavorito nella sua espansione da una ricetta che avvantaggia anche i ristoratori, è una proposta tra le più semplici da gestire e funziona secondo strandard che permettono di tenere sotto controllo i costi e fare economie di scala. In più, è possibile appoggiarsi a numerosi marchi in franchising: Waikiki Poké, Pokeria by Nima, I Love Poke, Poke House, Mama Poké, Ami Poké Hawaiian Bar.
A Milano c’è chi ce l’ha fatta da solo, senza l’appoggio delle catene, puntando su una formula più somigliante possibile a quella originale, come Poku Poke Place, in vero stile hawaiano, e Maiu Poke. Poi c’è l’abitudine, consolidata in anni di sushi, a consumare il pesce fresco con il riso. Ma è una storia che inizia ancora prima, con l’arrivo dei ristoranti cinesi, poi di quelli giapponesi. Ancora oggi, guardando le statistiche, fanno la parte del leone nella diffusione della ristorazione etnica in Italia che annovera 5.919 locali esclusi i kebab. Qualche dato nazionale: i cinesi sono 4.515, il 76,3 per cento: i giapponesi 640, il 10,8. Seguono tutti gli altri, africani, arabi, indiani, sudamericani, con percentuali tutte simili tra di loro, tra l’1 e il 2 per cento.
Il Pokè può godere, ancora, di un’altra risorsa vincente. “È il tipo di cibo più consegnato dai servizi di home delivery”, spiega Roberto Calugi, direttore generale di Fipe, la federazione dei pubblici esercizi. “Si presta alle consegne rapide proprio per le sue caratteristiche”. Ma quanto incidono questi trend sul complesso della ristorazione? C’è un dato su tutti che viene rivelato da Fipe, Il 70 per cento delle attività di ristorazione in Italia chiude entro i cinque anni dall’apertura. Per quale motivo? “E’ un lavoro molto complesso che richiede tanto impegno e capacità di gestione. Non ci si può improvvisare”, puntualizza Calugi. Proposte più “semplici” come il Poké e altre in precedenza reggono se la forza trainante non è solo questione di moda.
Come quella che si sta affermando, parallela al Pokè, a Milano. Il Macha Cafè, con la recente apertura del terzo punto in piazza Gae Aulenti. Caffetteria alla giapponese, dove protagonista è una pregiata varietà di tè utilizzato anche per la preparazione di dolci, tartine e cocktail. Il saldo, però, rischia di rimanere negativo per la tradizione italiana. “Rischia di essere spazzata via – conclude Calugi – da esercizi uguali in tutto il mondo, dal cinese, al fusion all you can eat, dal giapponese alla braceria. Diventano sempre meno nelle città italiane i locali di tradizione, più complessi da gestire ma che sono una grande attrattiva per il turismo”. Come si può pensare a Milano senza ristoranti tipici che servano il classico risotto alla milanese? E come si può immaginare una passeggiata a Trastevere senza assaggiare una carbonara?
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