Perché la morte di Nadia Toffa ci fa così male
È stato di mattina, presto che non ci eravamo ancora svegliati perbene perché è la settimana di ferragosto, e ci sta che – almeno questa settimana – il tempo abbia un altro andare.
La notizia della morte a 40 anni di Nadia Toffa che – prima una breve di due righe, poi il pieno di approfondimenti – ha invaso i nostri cellulari, le nostre case, le nostre televisioni, i nostri discorsi, i nostri umori, è arrivata come un’onda lunga e inattesa o – meglio – come una frenata al sole che brucia le ganasce e fa fumo tutto intorno eppure ci fa male in un punto del nostro corpo che sentiamo preciso ma non riusciamo a riconoscere, tra lo sterno e il cuore. E da lì, anche se lo sappiamo tutti, come andrà per “noi più” (il 13 agosto addolorati come fosse nostra sorella, il 14 agosto ancora scossi ma già un po’ dimentichi, il 15 la penseremo dal mare, accarezzando la nostra fortuna di esserci, con i piedi nella sabbia e il venticello tra i capelli, il 16 a funerale avvenuto l’attenzione scemerà, e torneremo presi dalle nostre cose) siamo, da inchiodati e frastornati, incapaci di tante comprensioni.
Perché la storia di una ragazza sorridente che ci era cara o antipatica in tv e che d’improvviso cade, ha un malore, e poi scopre che è un cancro, e poi dice “fa la chemioterapia”, e poi finisce male, in noi fa un’eco così esatto dentro? È per via della sua giovane età? Forse. Per la sua forza, la sua vitalità, che contrastano con questi titoli di coda? Sì, pure. Ma c’è dell’altro.
Susan Sontag scriveva: «Non si dovrebbe mai dare un “noi” per scontato quando si tratta di guardare il dolore degli altri», e aveva ragione. Eppure quel dolore degli altri – che si fa nostro oltre il dispiacere perché ci parla chiaro di un domani che nessuno può prevedere e da cui ognuno spera di essere risparmiato – noi ce l’abbiamo, è qui. Insieme al timore più grande che il tumore di Nadia ci ha messo nei pensieri: «Colpisce dove vuole, non capita sempre agli altri».
Non so voi, ma io nel leggere della paura che aveva che la mamma – la signora Margherita, che abbiamo visto più volte baciarle il capo e stare con lei durante la malattia – restasse sola, ho toccato la paura per la mia – che so avrebbe fatto (farebbe) lo stesso. L’ho toccata chiudendo gli occhi, incrociando le dita e sperando forte: «Mai, o se proprio dovrà essere, più tardi possibile, per piacere». Scambiando l’umanità per egoismo, mi sono perfino sentita un po’ in colpa. Mentre, intanto, si faceva largo come una lezione un carpe diem interiore che assomigliava al monologo finale di Lary Mann in The Big Kahuna: «Goditi potere e bellezza della tua gioventù. Goditi il tuo corpo, usalo in tutti i modi che puoi: è il più grande strumento che potrai mai avere». Insieme alla certezza che non potrò rispettarlo mai.
Della morte sappiamo niente, solo che perderemo tutto – la pelle, il respiro, la fantasia, l’amore, il caffè, la nostra migliore amica, i genitori che ci hanno messo al mondo, i figli che ci lasciamo -, tutto a partire dal calore.
Chissà dov’è andata, Nadia, d’estate, in quel freddo senza ritorno di cui nessuno sa.
LEGGI ANCHE
Il dolore della famiglia: «Quello che resta»LEGGI ANCHE
Nadia Toffa, le ultime parole a «Vanity Fair»: «Tutti sanno che sono matta, una matta senza paura»LEGGI ANCHE
Addio a Nadia Toffa, il ricordo dei colleghi: «Buon viaggio, guerriera»
LEGGI ANCHE
La paura più grande di Nadia Toffa: «Che mia madre resti sola»
LEGGI ANCHE
Addio a Nadia Toffa, il messaggio de Le Iene: «Chi ha vissuto come te non perde mai»