Noi che non l’abbiamo visto correre
Felice Gimondi, 1942-2019. Un campione troppo grande per poter essere contenuto in un qualsiasi ricordo, una divinità del ciclismo che mai potrà tramontare
Che cosa può scrivere su Felice Gimondi chi è nato troppo tardi per vederlo gareggiare, per vivere la sua epopea, la sua sfida infinita a Eddy Merckx, la sua pervicacia in gara e la sua sobrietà fuori dalle corse?
Impressioni rimbalzate non dall’esperienza diretta, ma dalla mediazione del racconto d’altri, a volte proprio del racconto suo in prima persona, dato che nel nostro vivere il ciclismo Gimondi è stata una presenza costante di ogni amarcord, di ogni approfondimento, di ogni riferimento a una disciplina che noialtri non abbiamo potuto conoscere per come l’hanno conosciuta quelli che ci precedono all’anagrafe.
Perché la conoscenza non è un concetto che possa limitarsi al nozionismo. Sapere a memoria i risultati di un grande campione del passato è un aspetto, ma non basta. Aver visto, tramite i video che circolano (noi cominciammo dalle videocassette della Logos, oggi la rete è piena di reperti televisivi dell’epoca che fu) è un altro aspetto, ma non basta. E aver letto, dagli articoli di chi c’era e anche dai ricordi di chi quell’epoca la visse, a partire dallo stesso Felice, è un altro aspetto ancora, che però pure questo non basta a esaurire il computo della conoscenza.
Per poter dire di conoscere veramente qualcosa del passato bisognerebbe averla vissuta, e sembra una conclusione banale ma non lo è affatto. Ci manca innanzitutto il contesto. Il sapere cosa rappresentò Gimondi in relazione al mondo che lo circondava, e non ci riferiamo solo al mondo del ciclismo ovviamente. Cosa fu Gimondi per l’Italia che si traghettava dal Boom alla Contestazione, che tipo di parentesi sociale era a livello emotivo quel campione di ciclismo che si misurava coi più forti della sua epoca, e spesso li batteva; anche il più forte di tutti, certo.
Ecco, la parola chiave è forse proprio “emotivo”. Come poteva empatizzare con il grande bergamasco un ragazzino degli anni ’60 o ’70, che cosa leggeva negli occhi timidi e feroci di quel corridore, che cosa capiva delle sue gambe perfette, che cosa imparava della sua condotta in corsa? Che rapporto intesseva, quel ragazzino, con un ciclista che – all’inizio senza saperlo, poi, col passar del tempo, in maniera sempre più autoconsapevole – scriveva la storia di questo sport?
Tutto questo, a noi che siam venuti dopo, a noi che non l’abbiamo visto correre, manca tremendamente. Possiamo al limite intuire, ma mai comprenderemo appieno. Intuire e non comprendere appieno, se ci pensiamo, sono elementi che potremmo tranquillamente correlare alla fede. E il cerchio si chiude, perché per noi che Gimondi non l’abbiamo vissuto, il vecchio Felice era una figura dai contorni che sfumavano nella divinità. Non è un’esagerazione tipica dei coccodrilli, in cui bisogna per legge incensare il campione di turno da commemorare nel giorno della morte. È proprio la verità.
Gimondi ci riportava all’ignoto, a ciò che avrebbe continuato a sfuggirci, a un’esperienza da cui qualcuno era passato meglio di noi, in maniera più piena, più compiuta. Gimondi era un ciclismo di cui da sempre ci giungevano echi di epica, etica, etnica, pathos che non sarebbero più stati riproponibili, non con quei contorni, non con quei contenuti, non con quei limiti e margini, non con quel perimetro di possibile, non con quell’estraneità di impossibile.
Gimondi era un simulacro sacro della nostra infinita infanzia sportiva, laddove l’infinito parte a ritroso da noi bambini e si dispiega all’indietro, fino all’inizio di tutto, laddove tutti i racconti, gli aneddoti, le testimonianze si appiattiscono in un meravigliosamente confuso tempo dell’accaduto, un tempo in cui Felice era accanto a Coppi e Gerbi, qualcosa che era successo, per qualcuno in diretta, per noi solo nella leggenda delle favole. “Ma chi sei, Gimondi?”, si diceva a qualche amico che correva veloce in bici, anche su una graziella scassata, ed era subito proverbio, motto allegro di cui tutti coglievano lo spirito, perché Gimondi era per tutti quello che era: Gimondi, un corridore ciclista troppo forte per poterselo raffigurare.
Gimondi era lo sconfitto più grande di tutti, era quello che era riuscito a ritagliarsi una carriera di successi incredibili nonostante dovesse confrontarsi con uno che era l’esagerazione fatta ciclismo, Gimondi era quello di Merckx&Gimondi, premiata indissolubile ditta&dicotomia, lo yin e lo yang, e che ognuno se lo coniugasse a piacimento, il concetto.
Gimondi era uno che per quanto ne sapevamo c’era sempre stato e sempre c’era, ed era un piacere sentire la sua voce felpata e flemmatica, era rassicurante e rasserenante, ed era anche bello scoprire che la mitezza del suo eloquio era un tranquillizzato paravento di un carattere di ferro, di una rabbia sportiva che non guardava in faccia a nessuno, se era il caso. Non si poteva vincere come Gimondi, nel tempo di Gimondi, e quanto Gimondi, se quelle gambe non avessero risposto agli ordini di una fame non tanto di successi, quanto di agonismo. Una fame feroce, una volontà di misurarsi con l’improbabile, un testa o croce col destino, un o la va o la spacca con le avversità.
È difficile pensarci senza Gimondi, noi del ciclismo, anche se sappiamo che le divinità della bicicletta in realtà non scompaiono mai, si continua e si continuerà a parlare di loro finché all’ultimo appassionato non resterà l’ultimo alito di voce. Gimondi è passato dalla vita terrena al ricordo e basta. Nel romanzo già ci stava da sempre, ed è forse questa sovrapposizione, tra campione ed epica del campione, a rendere così strano il rapporto che noi amanti dello sport possiamo avere con simili figure. Reali ma già irreali, ben prima che la nera soglia venga oltrepassata.
Gimondi è letteratura e musica, è bianco e nero sfocato di quelle tremule riprese televisive, è colore pastoso di quelle foto azzurro Salvarani, Gimondi è la faccia da ragazzino che sbaraglia il Tour nei ’60 e le basette allungate del campione affermato nei ’70, Gimondi è la moda del suo tempo e il passatismo del poi, è il ciclismo diffuso a piene mani e difeso a denti serrati.
Gimondi è tutto quello che noi siamo, nani sulle spalle dei giganti, che il grosso del lavoro l’avevano fatto loro, a noi basta giusto sistemare qua e là un po’ di punteggiatura. Non potremo mai aggiungere granché a quella storia, non potremo mai contribuire se non in maniera infinitesima, non potremo confrontarci con ciò che per sua natura è inconfrontabile con alcunché. Del ciclismo, Gimondi è tutto quello che sappiamo e anche tutto quello che non sappiamo. Gimondi, è.
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