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Август
2020

TIM, Open Fiber e la rete unica: il dilemma antitrust

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BRUXELLES. In Italia si dà ormai per sicuro che si farà la rete unica di telecomunicazioni, grazie alla fusione tra TIM ed Open Fiber. La volontà del governo, che si è ormai espressa con forme inequivocabili e sorprendenti (ad esempio l’irrituale lettera sull’operazione KKR) è talmente palese che non vi sono più dubbi sull’argomento. Pochi però sembrano porsi il problema di un passaggio tutt’altro che secondario per portare avanti l’operazione: l’autorizzazione antitrust. Infatti l’aggregazione delle reti di TIM ed Open Fiber creerebbe in Italia un nuovo monopolio nella rete d’accesso i cui costi, limiti e scelte tecnologiche verrebbero scaricate sull’intero settore: non solo sulle telecomunicazioni, ma su tutta l’industria e la società che così tanto dipendono dalla connettività e dal digitale. Un’operazione del genere deve per forza passare al vaglio dell’autorità antitrust competente ed il responso, sulla base delle informazioni di cui si dispone, sembrerebbe tutt’altro che scontato.

Piuttosto preoccupa l’atteggiamento di molte parti coinvolte che trattano il tema antitrust come di un ammennicolo da sbrigare in un secondo momento; ma soprattutto sorprende l’atteggiamento del principale attore dell’operazione, vale a dire TIM, che insiste nella volontà di ri-creare un monopolio privato, soggetto al controllo della stessa TIM, e verticalmente integrato, quindi con la capacità di influire sulla competitività dell’intero settore.

Gli scarsi precedenti europei nel settore telefonico
Non esistono precedenti pertinenti in materia perché mai è venuto in mente a qualche operatore ex-monopolista delle telecomunicazioni di comprarsi il suo unico concorrente e ricreare il monopolio della rete fissa. L’orientamento della Commissione europea e delle autorità antitrust è sempre stato quello di privilegiare la concorrenza tra reti, stimolando quindi la creazione di nuove, e non certo autorizzandone la riduzione. L’unico precedente di qualche pertinenza risale al 2014 quando l’incumbent olandese KPN decise di acquisire Reggefiber, un operatore wholesale-only di fibra ottica. L’operazione fu autorizzata perché in Olanda (a differenza dell’Italia, si noti bene) esistevano varie reti televisive concorrenti a quella di telecomunicazioni, attraverso le quali gli utenti potevano telefonare ed avere accesso ad Internet, per altro a livelli di qualità superiori alla tradizionale rete telefonica. Si tratta quindi di un precedente antitrust che non aiuta il deal TIM/Open Fiber ed anzi crea qualche problema, perché Reggefiber, una volta entrata nel gruppo KPN, ridusse gli investimenti in fibra e da quell’anno l’Olanda ha iniziato lentamente a scendere nelle classifiche europee della connettività (ora è solo 6°, ma lo deve soprattutto alle reti televisive, perché la rete di KPN continua ad essere centrata sul rame). Per il resto, nelle telecomunicazioni fisse non esistono casi di ritorno al monopolio con (o senza) il beneplacito delle autorità antitrust.

Il caso del mobile
Nel settore mobile, invece, vi sono stati vari casi di fusioni tra operatori e la Commissione europea, competente come autorità antitrust sovranazionale, si è normalmente mostrata ostica allorquando vi fosse una riduzione di operatori di rete. In Italia, ad esempio, la fusione tra Wind e Hutchinson del 2017 è stata autorizzata solo a condizione che entrasse nel mercato un nuovo operatore (che fu Iliad). In situazione analoghe delle fusioni sono state rigettate in UK e Danimarca, mentre in altri paesi (Germania, Austria e Irlanda) furono imposte delle condizioni. Una recente sentenza europea ha annullato il divieto che la Commissione europea impose alla fusione tra O2 e Hutchinson nel 2016, ma la corte europea ha semplicemente chiesto alla Commissione di fare analisi economiche più approfondite, non ne ha messo in causa il potere di vietare delle fusioni che portino ad una eccessiva concentrazione di potere economico.

Fusioni tra operatori ed investimenti in infrastrutture
Proprio i precedenti europei in tema di fusioni nel settore mobile hanno qualcosa da insegnare al caso TIM/Open Fiber, giacché nei casi europei è stato sistematicamente rigettato l’argomento secondo cui le fusioni sarebbero necessarie per investire di più. Al contrario, la Commissione europea ha sempre sospettato che le fusioni fossero semplicemente destinate ad aumentare le tariffe ed i margini degli operatori, senza nessun impatto positivo per gli investimenti. Nel caso TIM/Open Fiber questo pregiudizio è destinato a pesare, perché è indubbio che con l’entrata di Open Fiber nel mercato italiano gli investimenti in fibra sono aumentati rispetto al passato quando vi era la sola TIM (le statistiche europee del DESI riflettono bene questa realtà). Quindi, sarebbe difficile convincere un’autorità antitrust che la fusione tra TIM ed Open Fiber serva ad investire di più, quando è stato proprio la concorrenza tra i due operatori a fare aumentare in Italia gli investimenti in fibra.

La dottrina dei campioni europei
Qualcuno potrebbe però pensare che una fusione tra Tim ed Open Fiber potrebbe essere autorizzata sulla base della recente dottrina secondo cui l’Europa avrebbe bisogno di campioni europei per fronteggiare la concorrenza globale - un’idea portata avanti soprattutto da Francia e Germania a seguito dello scotto per la mancata fusione Siemens-Alstom, e che ha trovato orecchie attente a Bruxelles. Peccato però che questa dottrina del campione europeo miri a creare grandi operatori su basa paneuropea, e non domestica. In altre parole, sarebbe più facile far passare la fusione Tim/Open Fiber se vi fosse un acquirente europeo (Deutsche Telekom, Orange ecc) per entrambe; ma se invece l’operazione è destinata, come sembra, a creare solo un monopolista all’interno dei confini nazionali, non si può certo parlare di campione europeo e nessuna autorità antitrust prenderebbe in considerazione questo argomento.

Antitrust europeo o italiano?
L’aspetto più incerto della vicenda è in verità quello dell’autorità antitrust competente. Tutti parlano della Commissione europea e quindi della commissaria Vestager, che tiene le redini della direzione generale della Concorrenza (la temuta DGCOMP), ma in verità la situazione non è così chiara. Il regolamento europeo 139/2004 sulle concentrazioni riserva alle autorità nazionali antitrust la supervisione di quelle fusioni i cui effetti restino limitati all’interno dei confini di un singolo Stato membro. Così è stato, ad esempio, nel 2015 nel caso della fusione di British Telecom con l’operatore mobile EE. Così potrebbe avvenire anche per TIM/Open Fiber, anche se per saperlo con esattezza bisognerà vedere come sarà strutturato il deal e chi ne farà parte. Tuttavia, anche se la DGCOMP europea non dovesse avere competenza diretta sul caso, potrebbe comunque intervenire sulla base di norme diverse, in particolare quelle sugli aiuti di Stato, in considerazione dei fondi erogati ad Open Fiber nelle aree bianche e tenendo conto dei soggetti semi-pubblici coinvolti nell’operazione.

Una decisione politica?
Si potrebbe pensare che essendo la fusione Open/Fiber un dossier altamente politico, la questione andrebbe risolta nei cabinetti ministeriali e nei board, con le autorità antitrust nell’anticamera a fare da segretari. Ma non è esattamente così. Certamente, il coinvolgimento così importante e palese di un governo non è irrilevante per l’autorità antitrust. Ma sia DGCOMP che AGCM sono due autorità essenzialmente tecniche e sarebbe grave se si inclinassero alla volontà della politica, perderebbero credibilità e si creerebbe un precedente molto grave all’interno dei rispettivi sistemi istituzionali. Il commissario Vestager non ha mai mostrato particolare debolezza nei confronti della politica, come il caso Siemens/Alstom ha dimostrato. Né particolare accondiscendenza politica potrebbe mostrare l’AGCM al quale fosse delegato il caso, poiché in ogni modo quest’ultima dovrebbe pronunciarsi in totale coerenza con le norme e la giurisprudenza europee in materia. E’ da escludere che l’AGCM possa applicare deroghe od eccezioni ad hoc al caso TIM/Open Fiber, perché in tale caso la linea telefonica tra gli uffici di Piazza Verdi (AGCM) e quelli di Place Madou (DGCOMP) comincerebbe a scottare, visto il forte coordinamento che esiste tra Bruxelles e le autorità nazionali antitrust.

Resta piuttosto da chiedersi se Bruxelles abbia veramente voglia di spendersi su questo tema. La creazione di Open Fiber, con i costi relativi, e le giravolte di questi giorni, del ritorno al monopolio targato TIM, sono talmente irrituali che la tentazione di restarne fuori potrebbe essere alta.     

Come superare l’ostacolo antitrust?
Vista la totale contrarietà di norme e giurisprudenza europee alla fusione Tim/Open Fiber, l’unico modo per portare avanti l’operazione è quella di creare un contesto differente e più ampio della semplice fusione tra due operatori.

In primo luogo bisognerebbe abbandonare la narrativa, sconfessata dai fatti e dalle cifre, secondo cui il duopolio TIM/Open Fiber sarebbe uno spreco di risorse ed un ostacolo agli investimenti. E’ vero esattamente il contrario, perché sappiamo (si vede dai dati europei del DESI, confermati da quelli AGCOM) che proprio questo duopolio ha fatto decollare gli investimenti in fibra in Italia dal 2016 ad oggi. Bisognerebbe invece sostenere che questo duopolio, pur avendo per la prima volta creato in Italia un circuito virtuoso di investimenti in fibra ottica, non sarebbe ancora abbastanza per recuperare i gravi ritardi di connettività che l’Italia ha accumulato dal 2000 ad oggi. Quindi, per fare un ulteriore passo in avanti (e non certo indietro), bisognerebbe cambiare paradigma: non basta più la concorrenza tra due operatori soggetta alle regole del mercato, occorre invece l’intervento dello Stato che intende impegnarsi per il rapido sviluppo di una infrastruttura nazionale in fibra ottica, aggregando investitori ed operatori, assumendo la regia dell’operazione e vegliando sul rispetto dei piani di investimento. Non è detto che l’intervento statale si attui con una secca nazionalizzazione, perché potrebbero esistere varie modalità e misure dell’intervento statale. Tuttavia, nel dialogo con una autorità antitrust che deve essere convinta sul perché far tornare il mercato ad un monopolio, questa sembra essere l’unica visione che può sparigliare le carte. Se monopolio deve essere, che sia soggetto alle direttive ed alla supervisione del pubblico, non meramente alle leggi ed all’egoismo del mercato.

In secondo luogo, l’intervento eccezionale dello Stato (e bisogna sottolineare questa eccezionalità, visto che nessun altro in Europa pensa a nazionalizzare o porre sotto tutela la principale telco nazionale), dovrebbe essere rivolto ad una vera e rapida modernizzazione delle reti di telecomunicazioni: la nuova società a supervisione pubblica dovrebbe quindi impegnarsi nell’installazione di una vera rete in fibra ottica, cioè fino agli edifici (c.d. FTTH: fiber to the home), accelerando lo spegnimento della vecchia rete in rame. In altre parole, si tratterebbe di espandere e sviluppare la nuova rete di Open Fiber, e dismettere gradualmente quella in rame di TIM. Le due reti sono infatti incompatibili e non integrabili.

In terzo luogo, occorrerebbe offrire all’autorità antitrust tutte le garanzie che l’operazione di fusione nuocerà il meno possibile alla concorrenza. Questo vuol dire, in pratica: escludere il controllo esclusivo di TIM, operare la separazione della rete dai servizi retail, ed imporre il modello wholesale-only. La nuova società opererebbe quindi più come Open Fiber che come TIM, in quanto servirebbe il mercato degli operatori e non quello dell’utenza finale, che verrebbe lasciato agli ISP. Già oggi molti operatori italiani (Wind, Vodafone, Tiscali e Sky) utilizzano la rete di Open Fiber per fornire ai clienti finali i propri servizi e continuerebbero a farlo con la nuova società a supervisione pubblica.

Non è detto che quanto sopra sia sufficiente a convincere un’autorità antitrust circa la bontà della fusione tra TIM ed Open Fiber, ma è l’unica via perseguibile. Per capire la difficoltà della fattispecie, occorre ricordare che ad entrambi gli attori della vicenda, Open Fiber e TIM, sono state addebitate, a torto o a ragione, potenziali inefficienze e ritardi. Tuttavia, è evidente che la situazione di concorrenza tra i due abbia almeno agito come stimolo e catalizzatore per superare tale criticità. Con la fusione, invece, tutti i potenziali ritardi, costi ed inefficienze confluirebbero in un singolo operatore, non più soggetto ad alcuna pressione concorrenziale e quindi senza nessuno stimolo esterno a migliorare. Per convincere un’autorità antitrust che la medicina non sia peggiore del problema bisogna quindi creare uno scenario nuovo, non certo proporre il ritorno al passato di un monopolio privato e verticalmente integrato.

Conclusioni
Per superare gli ostacoli antitrust, la nuova società italiana della rete risultante dalla fusione tra Open Fiber e Tim dovrebbe assomigliare più alla prima che alla seconda: dovrebbe essere sottratta al controllo dell’operatore dominante (TIM), la rete sarebbe separata dal retail, l’operatore agirebbe come wholesale-only, cioè solo all’ingrosso, ed il piano di investimenti sarebbe focalizzato sulla fibra (FTTH) con conseguente spegnimento della vecchia rete in rame. Una Super Open Fiber, quindi, piuttosto che una Nuova TIM. Sembra un paradosso, visto che fino ad ora si è parlato di TIM che si compra Open Fiber, ma sarebbe l’unico modo per ottenere la luce verde dall’antitrust. Open Fiber capta ferum victorem cepit, per dirla con Orazio, quando l’illustre poeta raccontava della grecizzazione dei Romani che avevano conquistato la Grecia.  

@InnoGenna




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