L’incontro con Voghera nella casa Gentilomo e l’emozione di veder nascere “Gli anni di Trieste”
Con Elvio Guagnini nella residenza per anziani ebrei conobbi il decano della nostra letteratura più alta
Lo conobbi nell’autunno del 1988, nella casa di riposo Pio Gentilomo che accoglieva gli anziani della comunità ebraica di Trieste. Vi entrai insieme a Elvio Guagnini e fummo accolti in un atrio dalla ampie vetrate che si affacciavano su di un quieto giardino, spoglio di colori in quel novembre avanzato.
Avevo ventinove anni e davanti a me si stagliava la figura che percepivo più imponente di quanto lo fosse realmente, di Giorgio Voghera, ottant’anni da poco compiuti, decano indiscusso della letteratura triestina più alta.
Voghera fin dal primo momento posò su di me uno sguardo bonario e guardingo a un tempo, curioso di capire se quel giovane educato potesse diventare il suo nuovo editore: non a caso più volte l’Autore citò con grande ammirazione per scrutare la mia reazione, il nome di Roberta Marchetti, ufficio stampa di Studio Tesi.
Il progetto di Elvio Guagnini era quello di pubblicare una sorta di completamento-continuazione di “Gli anni della psicanalisi”, ma l’idea era già stata in qualche modo accettata dallo scrittore. Si fece quindi strada un clima di fraterna amicizia tra Guagnini e Voghera e io rimasi a lato di essa: titubante, silenzioso, ascoltavo parole piene di un affetto scherzoso che i due illustri interlocutori si scambiavano, tra un accenno a Flaubert e una riflessione più compita su Spinoza che nascondevano vaste praterie di cultura.
IL PICCOLO LIBRI / LO SPECIALE
La Leg era ai suoi primi passi e uno dei libri che avevo pubblicato qualche anno prima e che potevano dirsi destinati a entrare in quell’immaginario letterario a cui appartenevano tutte le opere di Voghera era “La corsa per Trieste”, di Geoffrey Cox. Il nostro progetto avrebbe preso forma con una felice copertina “familiare” di Ferruccio Montanari, nella primavera del 1989 con il titolo “Gli anni di Trieste”, un libro che posso riconoscere ora come fortunato, benché all’uscita avesse dimostrato un passo un po’ lento nelle vendite.
Nell’atrio di casa Gentilomo, intanto, si era affievolita la luce del pomeriggio e iniziavano a farsi strada le prime ombre della sera, mentre sparute presenze silenziose si aggiravano alle nostre spalle. Era giunto il momento di andarsene e ci addentrammo nei corridoi che conducevano alla sua stanza spartana: Voghera non aveva per un solo momento, come tutti i veri grandi, ostentato superiorità o saccenza. Fu a quel punto che, mentre lui ci precedeva, mi venne improvvidamente l’idea di accompagnare quel breve percorso accennando la chiusa del primo canto dell’Inferno “Allor si mosse, e io li tenni dietro”. Lui allora si voltò e quegli occhi celesti un po’ acquosi per un attimo si illuminarono di una tenerezza garbata per la citazione impacciata, e con condiscendenza mi apostrofò con “Ora mi fa Virgilio?”. La distanza tra di noi si attenuò nel tempo e forse il momento in cui scomparì del tutto fu quando mi chiese di accompagnarlo a bere un cappuccino in un bar piuttosto squallido di via Battisti, che lui frequentava assiduamente.
Oggi “Gli anni di Trieste” è presente nel catalogo storico della Leg, ma non lo si trova sugli scaffali delle librerie da molto tempo. Esiste, tuttavia, un documento inedito che ritengo di grande valore per la descrizione di quella città di carta il cui mito non è mai tramontato, e cioè un libro intervista, “La città di Giorgio”, realizzato sempre da Elvio Guagnini, autentico coautore, che forse (vero Elvio?) si dovrebbe pubblicare al più presto come testimonianza massimamente probante di una letteratura giuliana centrale pur nella sua eccentricità rispetto al panorama letterario nazionale. —
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