Padova non è una provincia per donne, guadagni ridotti del 39% rispetto ai maschi
PADOVA. Padova non è una provincia per donne. A dirlo sono i dati sulla differenze retributive di genere elaborati dal Caaf Cgil di Padova sulla base delle oltre 60 mila dichiarazioni dei redditi lavorate quest’anno. Complessivamente il reddito medio delle padovane per l’anno fiscale 2019 è di 15.017 euro, gli uomini invece dichiarano in media 24.623 euro.
Una differenza di 9.606 euro che in termini percentuali arriva ad essere del 39%, contro una media regionale del 38%. Il gap di genere (il cosiddetto gender pay gap) cresce ulteriormente se si guarda alle pensionate dove la differenza con i colleghi uomini arriva al 39,37%, mentre si riduce di poco sotto il 31% se si prende il solo lavoro dipendente.
Peggio che nel resto d’Italia
Un fenomeno considerevolmente più ampio rispetto a quello indicato da Eurostat a gennaio 2020 per la Penisola: l’Italia secondo i dati dell’istituto europeo di statistica vede una differenza in busta paga fra uomo e donna del 23,7% contro una media europea del 29,6%.
«Anche a livello di occupazione femminile, Padova si conferma tra le ultime provincie del Veneto con un tasso, per quanto riguarda la popolazione tra i 20 e i 64 anni di età, pari al 61,3%. Il secondo più basso dopo Rovigo per l’Osservatorio statistico regionale nel 2019», spiega Tania Toffanin, sociologa del lavoro del Bo.
«Pure se le fonti dati differiscono un po’ le une dalle altre, il fenomeno secondo il quale Padova ha un gap retributivo di genere più simile alle medie europee si può leggere come conseguenza del fatto di avere comunque un mercato del lavoro con caratteristiche più confrontabili alle medie Ue: il tasso di occupazione femminile secondo fonti Eurostat nel 2019 ad esempio in Italia era del 53,8%, nell’Europa a 27 del 67,3%, a Padova del 61,3%" prosegue la sociologa.
"D’altra parte la storia economica recente della provincia euganea offre una seconda chiave di lettura più legata alla qualità del lavoro: se infatti fino al 2008 una parte significativa dell’occupazione femminile era nell’industria, con la crisi molta parte di quell’occupazione è stata riassorbita nel terziario, notoriamente meno garantito dal punto di vista sia contrattuale che salariale e più interessato a fenomeni di precarizzazione".
"I dati di Veneto Lavoro sul periodo 2008-2019 lo confermano: il saldo occupazionale nell’industria è più pesantemente negativo per le donne nell’arco degli ultimi 12 anni, mentre nel terziario il rapporto si inverte in maniera estremamente evidente».
Impegni familiari e maternità
Ma sono anche i numeri che emergono dall’analisi del Caaf Cgil a confermare le difficoltà: «I dati che maggiormente colpiscono sono quelli relativi alle quote di reddito.
Tra chi dichiara meno di 10 mila euro più dell’80% è di sesso femminile, rapporto che sostanzialmente si ribalta se invece analizziamo i redditi superiori ai 40 mila euro: in questo caso, a dichiararli sono uomini per più del 70% dei casi – spiega Lisa Contegiacomo, del Caaf Cgil di Padova – La percentuale rimane sostanzialmente la stessa sia per quel che riguarda i soli redditi da lavoratori dipendenti, che per le pensioni».
Differenze evidenti anche laddove la legge e i contratti nazionali di lavoro non prevedono possibili discrepanze di genere.
«Pure all’interno di una stessa azienda, a parità di mansione e di contratto nazionale le differenze poso essere evidenti – spiega Marianna Cestaro, della segreteria confederale della Cgil patavina – Nessuno vieta infatti all’azienda di attribuire a chi preferisce – troppo spesso gli uomini rispetto alle donne – sovramminimi individuali, mentre è facile vedere in uno stesso ufficio tre impiegati con tre livelli salariali differenti».
"C’è poi il tema della disponibilità agli straordinari, fenomeno tipicamente maschile perché alle donne si attribuisce un ruolo di cura che spinge molte a preferire il part time".
"Non ultima la questione della maternità, vissuta dai dato di lavoro come un vero e proprio “handicap” – conclude la sindacalista – Credo che se solo si volesse equiparare i congedi per maternità a quello di paternità si potrebbe fare un notevole balzo in avanti non solo per la giustizia di genere ma anche per la curva demografica di questo Paese». —
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