La profezia di Maya
Questo articolo è stato pubblicato sul numero 41 di «Vanity Fair», in edicola fino al 13 ottobre.
Colpo di fulmine: «Mi è piaciuta la storia, mi è piaciuto il personaggio di Clara e mi è piaciuta l’atmosfera. Avevo molta voglia di lavorare con Stefano Accorsi, con Valeria Golino e con Serena Rossi, e volevo lavorare con Stefano Mordini, il regista. Da madre, immedesimarsi nella sofferenza di chi ha perso un figlio spaventa. Credo che sia il dolore più grande per un genitore. Ma Clara è un personaggio luminoso, è un personaggio che crede, che ha speranza, che ritrova l’amore della sua vita».
Nelle parole di Maya Sansa, al cinema dall’8 ottobre con Lasciami andare e ogni lunedì sera su Raiuno con la serie Io ti cercherò, si incontrano spontaneità e metodo, ragione e sentimento, e le storie dei suoi personaggi prendono vita, diventano di carne e di memoria. «Lasciami andare è un film di genere, ma non vuole solo intrattenere, non è quello il suo scopo; è un film profondo, appassionato, intimo. Il thriller psicologico è una conseguenza della trama più ampia, e l’obiettivo non è creare suspense: quella arriva successivamente».
Quello che è interessante, qui, è il punto di vista dei personaggi femminili. Una cosa abbastanza rara.
«Ci sono sempre stati registi, produttori e sceneggiatori che hanno provato a raccontare delle belle storie al femminile. Ora, forse, siamo più presi dalla quantità: da quante storie del genere siamo pronti a raccontare. La domanda è diventata: “Quanto permetteranno, a noi donne, di contribuire?”. E non solo nella scrittura, ma anche nella produzione, nell’ideazione e nella promozione dei film».
Come si fa a lavorare a un ruolo così complicato e intenso?
«C’è sempre una grande immedesimazione. Non prendo nessuna distanza di sicurezza. Se non me la sento, mi tiro indietro. Ma se dico di sì, non prendo nessuna precauzione. E in questo caso, ho visto la luce di Clara, non il suo dolore, non la follia».
Sembra difficile.
«Una delle mie più care amiche ha perso una bambina ed è una persona piena di gioia di vivere e di altruismo. Ama la vita più di tanti altri che questo dolore non l’hanno mai provato. È come un vaso giapponese».
In che senso?
«Se si rompono, i vasi non si buttano; si rimettono insieme, si incollano e si ricostruiscono, e le crepe vengono esaltate, riempite di colori. Quando ti succede una cosa del genere, ti rompi, vai in frantumi, ma non sei finito: sei un vaso diverso, e sei ancora più prezioso».
Il dolore può essere un compagno importante.
«Ci fa maturare più velocemente. Quando si soffre, si sta male. Ma questa sofferenza, se la si accoglie, può diventare a modo suo una grande opportunità per crescere. Forse, addirittura, per essere più felici».
Cosa rimane delle mille vite vissute e interpretate?
«L’esperienza ti aiuta a chiudere un capitolo, a entrare e a uscire da un ruolo. E in questo modo non ti porti dietro quasi niente, nessuno strascico. Quando ero più giovane, è vero, facevo più fatica. Come nel caso de Il vestito da sposa di Fiorella Infascelli».
Che cosa vuol dire, alla fine, essere un’attrice?
«Per qualcuno questo mestiere significa essere fissati con l’abbigliamento, con le apparenze; significa essere vanesi, essere esibizionisti. Ma è un’idea superficiale. Le attrici e gli attori sono persone che entrano in contatto con il mondo che li circonda, che vedono e che sentono profondamente».
Cos’è più importante, il talento o la tecnica?
«C’è un libro molto bello che mette a confronto due attrici: Sarah Bernhardt ed Eleonora Duse. Della prima parla come di un’interprete virtuosa, e della seconda come di un’interprete appassionata, capace di entrare in contatto con gli altri. E la verità è questa: c’è chi è bravo a enfatizzare, a fare grandi le piccole cose, e non sente il bisogno di immergersi totalmente nel proprio personaggio; e poi c’è chi, invece, ne ha quasi la necessità».
Lei che cosa pensa?
«Che lo studio è una rete di sicurezza, una rete che all’occorrenza può salvarti. E che questo è un lavoro, e che bisogna imparare. Per me è fondamentale vivere l’attimo. Esserci».
Partiamo dall’inizio.
«In un primo momento volevo fare il direttore della fotografia. Ma ero una ragazza ed ero innamorata del cinema, delle immagini. Ero pronta a lasciare gli studi per andare all’Istituto Cine-Tv. Mia madre, però, mi presentò un suo amico, un direttore della fotografia, Enzo Carpineta».
E che cosa le disse?
«Che la cosa più importante per fare il direttore della fotografia è lo sguardo. Insomma, dovevo studiare».
Di nuovo a scuola.
«Gli anni del ginnasio furono complicati. Ricordo che a un certo punto arrivò un giovane supplente; ci affascinò tutti, eliminò qualunque divisione tra cattedra e banchi, e ci fece leggere, per la prima volta, testi teatrali. E fu allora che intuii qualcosa. Una sensazione».
Quando ha scoperto l’amore per il cinema?
«Con Blade Runner. La prima volta che l’ho visto mi ha incantata. E non solo per la scena della pioggia, quella del monologo. Ero affascinata da Rutger Hauer, avevo la sua foto. Il mio diario era pieno di citazioni. In camera mia avevo anche il poster di Robert De Niro in Taxi Driver. Amavo tantissimo Dustin Hoffman in Tootsie e Gérard Depardieu in Cyrano de Bergerac».
Tutti uomini.
«Per tanti anni, non ci sono stati altri eroi. Solo agli uomini veniva permesso di essere guerrieri, spadaccini e poeti, di essere drammatici e romantici, di vivere avventure. E per anni, sono stata affascinata unicamente da loro».
Com’era da bambina?
«Molto emotiva. Allegra. Ci tenevo a essere brava, a non disturbare. Non c’era ribellione, non c’era disobbedienza. Non volevo creare problemi. Perché mia madre era giovane, e ne aveva già molti».
Era responsabile.
«Avevo un senso di protezione molto forte. Mia madre aveva bisogno di sostegno, e volevo aiutarla. Con mia nonna, invece, c’è stato un rapporto diverso: a lei sono legati alcuni dei miei ricordi più belli, ricordi fatti di gioia e di serenità».
Le radici sono importanti.
«Quest’estate, appena finito il lockdown, sono partita in macchina con Fabrice, il mio compagno, e con nostra figlia. A un certo punto, mi sono accorta che eravamo a meno di due ore da Santa Fosca, il paesino dove ho passato moltissime delle mie estati. E ci siamo andati. Ho ripreso contatti con la mia famiglia, con una mia cugina che non vedevo da molti anni, e ho pianto. Ho pianto tantissimo».
Perché?
«Mi sono resa conto che in quel luogo ho provato solo gioia. Non c’è stato altro. E mi ha fatto un forte effetto. Mia figlia mi chiedeva: tutto bene? E io le dicevo di sì, con gli occhi pieni di lacrime per la felicità».
Che cosa ricorda della sua infanzia?
«Gli amici di mia madre avevano venti, ventuno anni. Erano dei ragazzi. Ho dei ricordi meravigliosi, ma anche dei ricordi più complicati. Perché ogni cosa era un’avventura, era incerta. Con mia nonna, al contrario, era tutto più raccolto e più sicuro».
Che cos’è la famiglia?
«La famiglia te la crei, te la scegli. E credo che l’amicizia sia importantissima. Senza amicizia, senza quella complicità, non c’è amore, non c’è il seme per nessun tipo di rapporto. Quando feci il mio viaggio in Iran, sulle tracce di mio padre, mi resi conto che c’era questo legame che resisteva, che aveva le sue radici nel sangue, e che ti avvicinava a persone sconosciute».
Qual è la sua più grande paura?
«Perdere chi amo. La persona che se ne va se ne va: ha vissuto la sua vita. Chi resta, chi la saluta, non sa più come andare avanti».