Roberto Cotroneo nella villa di Alberto Sordi. Le segrete stanze
L’articolo è uscito sul numero di Vanity Fair in edicola fino al 13 ottobre
Lui l’aveva chiusa agli altri quasi da subito. E alla fine era tornato a se stesso, a quello che era sempre stato. E più gli anni passavano e più la sua villa, quella di Alberto Sordi alle Terme di Caracalla, diventava inaccessibile e leggendaria. Eppure per gli attori «la villa» è un’addizione dell’ego, è un film che si gira per una vita intera, un muro portante dell’esistenza.
Sin dal momento dell’acquisto, ed era la primavera del 1954, Sordi fece una scelta controcorrente. Cercava una casa adeguata al suo successo ma rinunciò all’Appia Antica, dove abitavano le grandi star: da Sofia Loren a Franco Zeffirelli. Vide una villa che sembrava abbandonata, di un ex ministro, Alessandro Chiavolini, e decise di comprarla. Era in via Druso, di fronte a Caracalla. Lo fece a modo suo, con un gesto che avrebbe segnato il destino di quella casa. Il 20 maggio 1954 si presentò a Milano, dal notaio Eugenio Gelpi, con i dieci milioni di lire per l’acquisto, tutti in contanti, come in una novella di Giovanni Verga. Si racconta che su quella casa avesse mire anche Vittorio De Sica. Si telefonarono. E De Sica: «Mi hai soffiato quella casa». E Sordi: «Non lo sapevo che eri interessato. Ma io avevo i soldi in contanti. Tu li avevi?». E De Sica: «No, io no».
Poi ci fu la ristrutturazione: quattro anni di lavori. Con dentro tutta la passione di Sordi per l’antiquariato. Ma anche per qualcosa che veniva da lontano. La villa è come un cappotto rivoltato. È la storia sua, e delle sue amatissime sorelle. Quegli oggetti sono il pensiero di Sordi sulla vita e sul tempo. Non è una casa allegra quella di via Druso, e neppure una casa sfinita da anni di troppa vita. Sono stanze di canottiere bianche e pantofole ai piedi, di un’Italia che Sordi ha rappresentato. Ogni volta senza sapere mai bene da che parte stare: dalla parte del carnefice o dalla parte della vittima.
Sarebbe facile raccontare l’attore estroverso e amato, l’uomo di successo che sembrava non sbagliare un solo film anche quando ne girava troppi. E poi rovesciare le carte, nasconderle appena si apriva il cancello della sua villa, dentro una Roma eterna, affacciata su un piazzale che giusto Numa Pompilio poteva chiamarsi, il primo e sciamanico, oltre che misteriosissimo, re di Roma.
E in fondo Sordi era più Numa Pompilio che Augusto, Traiano o Giulio Cesare. Era un mondo arcaico e sfuggente il suo, impenetrabile. In questa casa non è leggibile un Sordi privato. Non c’è un rovescio della medaglia. C’è la villa di un uomo che continua a ricercare una sua trama quotidiana, comprensibile soltanto a lui. Amava i mobili di antiquariato, i bei dipinti: e questi si trovano, ma non come in una casa alto borghese qualsiasi. C’è un misto sfuggente di oggetti, di suppellettili, un sincretismo che sembra un racconto di qualcun altro. Niente che si possa davvero esibire, a parte quel teatro, bellissimo, ricavato dalla legnaia, con i camerini dalle piastrelle blu, il pianoforte Bechstein al centro del palcoscenico, e le statue che rappresentano le sette arti (più l’ottava, ovvio). Tutto il resto sono corridoi della memoria, come avesse pensato la sua casa per abitarla con lentezza, a rispecchiare di continuo il vecchio appartamento di Trastevere, dove viveva con i genitori, le sorelle e il fratello.
Le sorelle, certo, che hanno segnato questo luogo come penati sull’altura di Velia. Le finestre di casa Sordi colpiscono: le finestre sono un tuffo nella normalità, non sono state pensate come qualcosa che potesse accendersi alla luce della città più folgorante del mondo, Roma. Ma, per quanto non siano così piccole, sono feritoie della notte, per quell’amico fragile che dormiva in una camera da letto antica e stanca, per nulla vezzosa, neanche a dirlo mai peccaminosa, di natività severe e angioletti seicenteschi, abat-jour che proiettano luci sulla parete come candelieri delle antiche chiese. Per arrivare dove poi? Alla stanza accanto, alla barberia, tutta a specchi, per un rito virile e suadente, che nella ripetizione di ogni giorno trova il suo senso e la sua bellezza.
Il resto sono stanze su stanze (e peccato non aver visto la cucina) con libri dalle legature scelte con attenzione, con il vecchio bassotuba del padre di Sordi trasformato in una lampada, con il radiofonografo disegnato da Achille Castiglioni per Brionvega che l’attore romano non scelse, come facevano quasi tutti, di colore bianco, ma di un color legno desueto, un modo per non aderire del tutto al design moderno, tenendosi un passo indietro.
Fa impressione uno scrigno della casa non ancora visitabile: la stanza guardaroba. Tutto è rimasto intatto dal giorno della morte. I pantaloni ordinati in un susseguirsi di tinte e sfumature che virano verso il beige che sfocia in un susseguirsi di cappotti cammello, tutti nel loro cèllofan. E sopra la cassettiera in legno chiaro per le camicie Alberto Sordi conservava le bottiglie di liquore, che non beveva. E che non erano degli Château d’Yquem o dei Cristal. Ma distillati che un tempo si regalavano per Natale ai medici e agli avvocati: i whisky Johnnie Walker, lo Stravecchio Branca, lo spumante Principe di Piemonte della ditta Cinzano. Per non dire della scarpiera decorata con disegni esotici di palmizi con le scarpe consumate eppure conservate.
«L’orchestra si dondolava come un palmizio», canta in una sua celebre canzone Paolo Conte, ma l’insieme della casa assomiglia forse più a un complesso bandistico dove ognuno va un po’ per conto suo, e che sembra più adatto a chiudere un film del suo amico Federico Fellini. Da parte mia, ho incontrato Alberto Sordi alla fine degli anni Novanta. Avevamo un appuntamento al Caffè Rosati. Indossava uno di quei cappotti cammello. I capelli erano nerissimi. Ma aveva uno sguardo sperduto: mi raccontò della nostalgia per le crociere di una volta. Quando erano ancora frequentate dal jet set: «Ormai non ci si può più andare, è cambiato tutto», mi ha detto sconsolato. Parlammo più di un’ora. Poi prese un taxi e disse al tassista soltanto: «Mi porti a casa». «Certo dotto’», gli venne risposto. C’è ancora qualcuno nel mondo che può dire a uno sconosciuto «Mi porti a casa» senza dover aggiungere altro?