Il Consiglio di Stato ha detto “no” al centro islamico a Fonzaso
Accolto dopo sei anni il ricorso del Comune: in quella zona di Arten non sono possibili luoghi di culto
FONZASO. Il centro islamico ad Arten non si può fare. Lo ha deciso il Consiglio di Stato, accogliendo dopo sei anni il ricorso in appello del Comune e respingendo le argomentazioni della proprietà, l’impresa di costruzioni Samaria, che dovrà ora pagare le spese del doppio grado di giudizio.
Per i giudici della quarta sezione del Consiglio di Stato, infatti, c’è poco da girarci attorno: l’ampliamento dello stabile di Arten già esistente chiesto dall’impresa per realizzarvi tra l’altro una sala di preghiera «non appare compatibile con la destinazione urbanistica né della zona, né dell’edificio che si va ad ampliare in deroga ai limiti di cubatura disponibili».
Ed il Comune di Fonzaso aveva quindi ragione a negare il permesso di avviare i lavori.
La storia del grande stabile al grezzo vicino agli impianti sportivi si trascinava ormai da sei anni. Era il 2014, infatti, quando l’associazione “Un passo verso la speranza” si fece avanti per acquisire l’edificio ancora al grezzo, mettendo sul tavolo un progetto per ampliarlo e realizzarvi un centro islamico con minimarket, negozi, uffici, una web tivù e un locale da adibire a sala di preghiera.
Un progetto da portare avanti in quella zona classificata come D2, ovvero commerciale e di servizi, ampliando lo stabile al grezzo grazie alle possibilità offerte dalla legge regionale sul “piano casa” e ad un investimento consistente, circa otto milioni di euro, garantito da uno sceicco legato alla monarchia saudita.
Ma l’operazione per l’acquisto da parte dell’associazione islamica e l’ampliamento del compresso non si era concretizzata: il Comune aveva negato l’autorizzazione a far partire con i lavori, sostenendo che non è possibile realizzare un luogo di culto in zona D2, mentre intanto attorno al progetto si scatenava il dibattito e venivano raccolte 800 firme contro l’iniziativa.
L’impresa aveva fatto ricorso al Tar contro il “no”, vincendo il primo round, ma il Comune aveva fatto a sua volta ricorso al Consiglio di Stato.
Era il 2014 e da allora la questione è rimasta arenata. Fino al febbraio di quest’anno, quando è stata fissata l’udienza per la discussione, celebrata a Roma il 30 ottobre con il Comune rappresentato dall’avvocato Enrico Gaz e l’impresa patrocinata dall’avvocato Massimo Moretti. E ora è stata depositata la sentenza: viene accolto l’appello del Comune e l’impresa dovrà pagare 6 mila euro di spese di giudizio.
Per i giudici romani, nonostante i distinguo linguistici, «è incontestabile che nella progettualità presentata dalla società si parli di una “sala per preghiere”, pur senza attingere al ben più ampio respiro della vera e propria “moschea”». Come è esplicito che il progetto di ampliamento puntasse ad armonizzare la nuova porzione «alla destinazione finale dell’intero edificio a “centro di servizi e culturale islamico”, con ciò attestando, almeno nelle intenzioni, una funzionalità complessiva dello stesso ben diversa dall’attuale».
Di luogo legato al culto si parla dunque, e il nodo – sottolineano i giudici – è quindi capire se un luogo di preghiera sia compatibile con la destinazione urbanistica di quell’area di Arten.
E la risposta, per il Consiglio di Stato, è negativa. «La destinazione d’uso della zona ove insiste l’edificio, connotata come “D2”, è riservata esclusivamente a “artigianato di servizio e servizi alla viabilità”», sottolinea la sentenza. Le Norme tecniche di attuazione al Piano regolatore chiariscono la possibilità di realizzarvi “insediamenti artigianali di servizio, commerciali, direzionali, mense e servizi della ristorazione, esercizi pubblici e di svago, oltre all’eventuale residenza del titolare o custode”.
Ma, osservano i giudici, «nessuna di tali diciture appare compatibile con una “sala preghiera”, seppur alternativamente utilizzata quale “sala convegni”». E dunque il centro di preghiera lì non si può proprio fare. —