La ragazza e la capra oltre il Boite, una lezione che viene dal passato
La pandemia di cent’anni fa era “la spagnola” e raggiunse anche un piccolo paese di montagna
Una bella storia è un regalo che si riceve, e credo possa essere utile oggi perché ci porta almeno due cose: la speranza nel domani e la coscienza di ciò che siamo stati.
I protagonisti di questa vicenda realmente accaduta sono un piccolo paese di montagna, una ragazza, una capra, la Grande Guerra e quella pandemia che avremmo imparato a conoscere col nome di Spagnola. Dobbiamo però fare un salto indietro nel tempo di centodue anni, per arrivare nel paese di Vallesina, nel comune di Valle di Cadore, Belluno, ai piedi del Monte Antelao.
Il primo allarme
È la tarda primavera del 1918, il paese è occupato dalle truppe austro-ungariche, e la vita è sempre densa d’attività e mestieri: le segherie, i mulini, i soldati, i commerci, il lavoro della terra, quella quotidianità produttiva che regge i Paesi anche in tempo di guerra. Sui prati si è impegnati nella cura della terra e ci sono tante donne e tra loro c’è una bella ragazza che ha poco più di vent’anni e, come si diceva un tempo, è il fiore della salute. Ma un giorno si ammala, non è normale avere la febbre così alta, quei sintomi potenti e basta poco a quella famiglia di montanari per capire che forse si tratta di “una brutta malattia”. Dovrà arrivare l’autunno di quell’anno perché ci sia un primo allarme di epidemia in Italia, accade a Vicenza, quando un capitano medico del servizio sanitario militare, invita il sindaco di Sossano a chiudere le scuole per una sospetta epidemia di tifo. A causa della censura in vigore negli Stati belligeranti ci vorrà più tempo perché si cominci a parlare di pandemia e infine di Spagnola e delle terribili stime che sono state fatte: cinquecento milioni di contagi, dai venti ai cento milioni di morti su una popolazione mondiale di due miliardi di persone.
In un tabià
È quindi emblematica l’allerta di quella famiglia cadorina che poggia sull’antica memoria che sussurra parole terribili come tifo, colera, peste, le piaghe contagiose che hanno spopolato le comunità e che hanno insegnato una sola difesa: l’isolamento.
A quella ragazza ammalata e spaventata viene consegnata una capra e la si manda in un tabià, una stalla, oltre il torrente Boite, nei prati che portano ancora oggi il nome di Tarlega. Da sola, lei e la capra, che nella tradizione della vita d’alpeggio era la bestia che accompagnava i guardiani delle vacche perché ogni mattina, mungendo la capra, si otteneva quel po’ di latte tiepido per fare colazione con la polenta fredda e intanto si risparmiava il latte delle vacche per fare il prezioso formaggio di malga.
Ma in quella famiglia che ha allontanato da sé e dal villaggio la figlia, che forse ha una malattia contagiosa che uccide, c’è una madre che non l’abbandona e ogni due giorni attraversa il ponte sul torrente e va a vedere come sta la ragazza, per portarle della polenta, un pezzo di formaggio, qualche avanzo di casa. Però c’è qualcosa che questa donna non immagina, e ha a che fare con le spie: in quella stagione c’è grande fermento negli eserciti che si fronteggiano lungo il Piave e sul Grappa, preparativi che sfoceranno nella battaglia del Solstizio. E quindi c’è l’allerta, il controllo su tutto il territorio veneto, così è anche per i militari di stanza a Vallesina che vengono a sapere di una donna che spesso si reca dall’altra parte del torrente con un piccolo cesto, si ferma poco, poi ritorna. I soldati un giorno la seguono fino al tabià, osservano e capiscono: lì ci devono essere delle spie.
Come una mitragliata
Circondano l’edificio, gridano, la capra si spaventa. Gridano ancora. Ne esce una ragazza, non sembra più la bella giovane al lavoro nei prati assolati, è emaciata, febbricitante. Anche lei si fa capire, con la poca voce che ha in petto. Dice d’avere “quella malattia” e gli austriaci capiscono e si fermano, di più, fanno dietro front come dinnanzi a una mitraglia, perché anche loro hanno sentito voci di commilitoni portati via con la febbre a quaranta e morti dopo pochi giorni. Si ritirano in buon ordine, non ci sono spie degli italiani oltre il Boite, solo una ragazza ammalata di tifo, sicuramente contagiosa.
Ma una bella storia non finisce qui, dura nel tempo, attraversa le generazioni, per poter arrivare fino a noi.
Una vecchia racconta
Siamo sempre a Vallesina alla fine degli anni Ottanta del Novecento e c’è un ragazzino seduto vicino alla fontana del paese che ascolta una vecchia raccontare. La donna ha novant’anni e ricorda un’estate di tanti anni prima, dice della sua giovinezza, della guerra, di “quella malattia” e di una capretta che le aveva dato di che vivere quando il mondo e la sua vita sembravano sul punto di finire. Quel ragazzino oggi è un uomo, ha la sua famiglia e mi ha raccontato quest’avventura confidando negli occhi limpidi di quella vecchia, piuttosto che sui riscontri storici, e me l’ha donata perché circoli tra noi in questi tempi difficili. Una storia di cent’anni fa serve per tenere lontane le facilonerie, i piagnistei, le cattiverie che insidiano, a volte, i cuori più deboli, le persone che non hanno in mente il villaggio, la comunità, il bene comune.
Le scelte giuste
Da una valle montana di tanti anni fa ci arriva un invito alla speranza per quando siamo addolorati per chi ci ha lasciato, o sta lottando per la vita; oppure quando siamo preoccupati per la nostra salute e quella dei nostri cari, oppure quando siamo in salute ma ci sentiamo preda di quell’ansia che deriva dalla limitazione di poterci muovere e incontrare persone. E poi la grave situazione economica di chi vede giorno dopo giorno esaurire i frutti del proprio lavoro e un futuro sempre più nero. Ecco, possiamo fare una cosa, attraversare con l’immaginazione l’acqua fredda del torrente Boite e andare a trovare quella ragazza con la sua capra: lei non ci può offrire un rifugio sicuro, del buon cibo, delle medicine adeguate, tantomeno un vaccino. Lei, e quelle generazioni, ci mostrano che non bisogna sapere tutto nella vita per poter fare le scelte giuste e che la vita può risorgere bella e duratura anche nei momenti più bui che un Paese è chiamato ad attraversare. E di questo dobbiamo avere coscienza. —
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