I posti letto occupati al 70%. Pressing sulle rianimazioni del Veneto
VENEZIA. Una pressione sul sistema sanitario che non trova precedenti in tempi di pace. In Veneto, a fronte dei 13.820 posti letto disponibili nel circuito ospedaliero, il flusso dei ricoveri ha raggiunto quota 9.787, superando il 70% della capienza totale.
È una soglia oltre la quale il rischio di collasso diventa concreto: «Medici, infermieri e operatori affrontano uno sforzo straordinario con dedizione commovente ma c’è un limite alla tenuta, in molti reparti il personale è allo stremo», riconosce il governatore.
Nel dettaglio, in questa fase della pandemia, ai 2.727 pazienti affetti da Covid si sommano i 7.060 malati ordinari ma sono le rianimazioni l’autentica linea del Piave del contrasto al virus, dove tempestività e appropriatezza delle cure rappresentano il crinale tra vita e morte.
Il coordinatore organizzativa delle terapie intensive è un veterano del Suem, il medico Paolo Rosi: «In questi mesi la dotazione regionale di letti intensivi è cresciuta progressivamente», esordisce «nel picco di marzo le postazioni operative erano 697 ma a giugno un’ordinanza governativa le ha fissate a 14 ogni centomila abitanti in ogni regione; nel caso veneto ciò si traduceva in 211 in più, tuttavia abbiamo scelto di elevarle di 371 unità attraverso la parziale riconversione delle subintensive, fino a toccare le 1008 potenziali».
Un primato che ha concorso ad assicurare al Veneto la permanenza in fascia gialla, suscitando però perplessità e critiche tra quanti giudicano irrealistica tale cifra. Dall’opposizione, le consigliere Cristina Guarda (Europa verde) ed Elena Ostanel (Il Veneto che vogliamo) paventano una «presa in giro a danno dei cittadini» mentre il segretario dei medici ospedalieri dell’Anaao, Adriano Benazzato, osserva che «L’attivazione supplementare dichiarata dalla Regione dovrebbe prevedere l’assunzione di almeno 400 anestesisti rianimatori e oltre 1200 infermieri dedicati, che in tutta evidenza non ci sono e non abbiamo in Veneto. E, qualora fosse anche possibile, ciò significherebbe abbassare e compromettere pericolosamente la sicurezza e la qualità delle cure, determinando un considerevole aumento del rischio clinico».
Pacata, al riguardo, la replica di Rosi: «Certo non sarebbe una passeggiata, semmai una catastrofe, uno stato d’emergenza estremo che costringerebbe a tagliare radicalmente ogni altra prestazione. Confidiamo che ciò non avvenga ma i numeri citati sono reali e a testimoniarlo è la planimetria, letto per letto, reparto per reparto, tracciata dai direttori delle Ulss che ci indicano anche dove attingere il personale necessario, quali servizi ridurre e in che tempi l’operazione può essere conclusa».
Non solo statistiche. Il monitoraggio quotidiano segnala un elevato turnover accompagnato dal prolungamento delle degenze - «Dai 15 ai 20 giorni rispetto alla settimana media pre-Covid a fronte di una curva “piatta” dei contagi «che ristagna ma non accenna ancora a flettere». Elevatissima la mortalità in rianimazione - «Il dato rispecchia l’orientamento clinico che ne riserva l’accesso ai casi più critici, sottoponendo le minori gravità al percorso sub e semintensivo» - e colpisce il cenno all’età media dei decessi: «Al 90% si tratta di ultrasettantenni ma la percentuale restante, a fronte di 5 mila vittime censite, indica che circa 500 pazienti di età inferiore, quaranta/cinquantenni, non sono sopravvissuti all’infezione. Pensiamoci». —