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Декабрь
2020

Cento anni di sfide al mito dell’Everest: dalle imprese epiche ai pacchetti vacanze

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Cento anni di sfide al mito dell’Everest: dalle imprese epiche ai pacchetti vacanze

Nel 1920 il Dalai Lama autorizzò la prima spedizione. Nives Meroi: «Oggi in vetta ci sono tende bar e internet»

Il 20 dicembre di cento anni fa il Dalai Lama inviava un telegramma da Lhasa, capitale del Tibet, alle autorità dell’India britannica, per autorizzare la partenza della prima spedizione verso l’Everest, dando inizio ad una storia che avrebbe segnato molti destini e l’economia di un intero territorio.

A stabilire che era la montagna più alta della terra furono già a metà Ottocento i rilevatori britannici del Great Trigonometric Survey, misurandone la quota da grandi distanze: l’altezza fu stabilita in 8839,81 metri rispetto agli 8848,86 della misurazione effettuata quest’anno e accettata da Nepal e Cina, le nazioni su cui insiste dal 1950 la montagna. Già che c’erano, i britannici le cambiarono anche il nome - per i tibetani è Chomolungma e per i nepalesi Sagarmatha - dedicandolo al geografo autore della prima misurazione.

Gli inglesi, oltre ad avere i primi morti nel tentativo alla vetta, George Mallory e Andrew Irvine nel 1924, sono anche i primi a salire in cima nel 1953, essendo per molti anni gli unici privilegiati concessionari dell’autorizzazione («l’Everest era semplicemente “la montagna nostra”», dice lo scrittore Mick Conefrey nel bellissimo libro “Everest 1953”, che racconta la storia epica della sua conquista). Quello del 1953, con la vittoria del neozelandese Edmund Hillary con lo sherpa Tenzing Norgay, fu il nono tentativo.

Rispetto a quegli anni pionieristici di avventura e di un reale viaggio nell’ignoto, con forte esposizione a pericoli insondabili, che cos’è diventato oggi l’Everest?

A detta dei grandi alpinisti, Reinhold Messner in primis, primo con Toni Habeler a salirla senza bombole d’ossigeno, è una montagna addomesticata.

Le ultime notizie riferiscono anche molto inquinata: ricercatori hanno rilevato sul Balcony, il pianoro a 8400 metri sul versante nepalese, quello sud del colosso himalayano, la presenza di microplastiche con una concentrazione di 12 particelle per litro di neve.

Nives Meroi, prima donna italiana a salire in vetta nel 2007 senza l’ossigeno supplementare, in cordata con il marito Romano Benet e dopo un primo tentativo nel 1996, concorda.

«Oggi l’Everest è meta di un alpinismo edulcorato – spiega l’alpinista –. E i primi sintomi si erano già intravvisti nel 1996, che fu non a caso l’annus horribilis della tragedia raccontata dal giornalista Krakauer in “Aria sottile”. Noi venivamo dalla scalata al K2, compiuta trasportando i carichi e attrezzando il percorso da soli. Già allora l’Everest era la vetrina più alta della terra, con mobilitazione di tante persone in quota»

Che cosa è cambiato in particolare?

«L’Everest è una meta commerciale: la salita alla cima è in mano alle agenzie, che hanno servizi sempre più precisi per garantire il successo ai loro clienti. Creano una sorta di pacchetti vacanze. Dal versante nepalese partono decine di voli di elicotteri che come taxi portano in quota rifornimenti e gente con tutte le implicazioni di inquinamento correlate.

I trekking di avvicinamento sono diventati la parte più noiosa di una spedizione: tutti vogliono arrivare al Campo base in poco tempo, oltretutto - i più danarosi - con qualche volo di ritorno a Kathmandhu per recuperare le energie prima della cima. I campi base hanno tende con letti e non più il sacco a pelo a terra, c’è la tenda bar, ci sono le connessioni internet. Tutti vogliono provare l’avventura però appena girano l’angolo si sentono persi».

Questo ha cambiato anche la vita degli sherpa: in bene o in male?

«Per fortuna anche gli sherpa ora usano l’ossigeno (certe agenzie, per offrire un migliore servizio, usano 1 o 2 sherpa per ogni cliente e ogni 3-4 clienti c’è una guida occidentale). Per gli sherpa, il turismo è una fonte di guadagno importante, che permette di migliorare le loro condizioni di vita ma dall’altra parte, concentrati esclusivamente sul turismo, rischiano di perdere di vista la sostenibilità e la salvaguardia di quegli ambienti, cosi' delicati che ogni danno rischia di essere irreversibile». —


 




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