Miriam Leone, la pescatrice di sogni
Questo articolo è pubblicato sul numero 1 di Vanity Fair in edicola fino al 5 gennaio 2021
Miriam non si sveglia a mezzanotte, ma va a dormire giusto poco prima: «La sveglia suona alle sei e mezza del mattino e quando si fa sera, per chiudere gli occhi, mi basta appoggiare appena la testa sul cuscino». Miriam sta girando un film nella capitale, ma l’unica Roma che può frequentare è quella raccontata nel libro che sta leggendo. Per il resto, il viaggio è sempre lo stesso. Albergo, set, albergo. Conosce i nomi degli inservienti: «Lei è Marisa, lui è Sergio», il sapore del caffè, lo spicchio di fiume da cui ogni mattina vede spuntare il sole, i suoi limiti: «Il vino non lo bevo, tra 12 ore sono sul set». L’abitudine quotidiana, nell’anno in cui ogni consuetudine è stata stravolta, non le ha fatto perdere le coordinate e non l’ha assuefatta al lamento: «Rimpiangere quello che abbiamo perso è deprimente e per non cedere alla tentazione bisogna darsi una spinta interiore molto forte. Il contatto con gli altri è fondamentale e vederlo limitato mi opprime. Me ne accorgo da tensioni e nervosismi che normalmente non ho, da risposte brusche che di solito non do, da un’irritabilità di fondo che è tutto ciò che per natura non possiedo. Ogni tanto mi domando da cosa dipenda e poi mi calmo. “C’è una pandemia globale”, mi rispondo e d’un tratto ogni malessere assume la dimensione corretta».
Rimettere in ordine i tasselli, ripristinare le priorità, ristabilire un ordine. Miriam Leone ci è già passata. Dodici anni fa, dal nulla, diventò Miss Italia: «Arrivai nella fiaba all’improvviso, come Cenerentola, e la mia vita cambiò in una serata. Ero tesa, spaventatissima, fuori contesto, ma anche entusiasta, felice e curiosa. Mi misero un microfono in mano e ricordo ancora lo sgomento: in quel momento avrei potuto dire qualsiasi cosa. Forse, da allora, l’unica cosa che non è cambiata è questa. Non mi piace molto parlare di me, ma se lo faccio, magari in un momento di entusiasmo o di emozione, sono imprevedibile persino a me stessa».
Questo è un momento emozionante?
«Avrebbe potuto esserlo. Sono reduce dalle riprese di Diabolik, un film nel quale credo molto. Avrebbe dovuto uscire nei prossimi giorni. Il motivo per cui siamo qui a fare comunque quest’intervista, perché la vita non può e non deve fermarsi. Ora che ci penso, forse non è un caso».
Cosa non è un caso?
«Che per il momento Diabolik non esca. Il film è pronto e io l’ho visto. È bello. Tanto che a un tratto mi sono dimenticata che quella Eva, la bionda che vedevo sullo schermo, fossi effettivamente io. Faticare più del lecito per ottenere qualcosa evidentemente è il mio karma». (sorride)
Lo vedremo nel 2021.
«Pazienza. In questo periodo ci vuole tanta pazienza. Lavorare con i fratelli Manetti è stata una gioia. Hanno una squadra di lavoro giovane e talentuosa con molte ragazze della mia età. Ho amato da subito Eva Kant e l’idea di mettere in scena un fumetto creato da due sorelle geniali in una piccola cucina negli anni ’60. Eva è una lady, una donna che non sta un passo indietro e sa prendersi le sue rivincite per i soprusi subiti nella vita accanto a Diabolik. Lui e lei non si lasceranno mai, è la storia d’amore più romantica di sempre».
Anche quello di Eva Kant e Diabolik, come l’attuale, è un mondo in maschera.
«Lei è l’unica a vederlo senza maschera nei rari momenti di verità di un’esistenza perennemente improntata all’inganno e alla finzione. Il mondo che mi piace è quello: vedersi e piacersi senza maschere, ma il 2020 ci ha restituito un mondo nuovo. Con un virus che separa le persone».
Quando sente paragonare questo lungo periodo a una guerra cosa sente?
«Disagio. Non mi sembra che siamo in guerra. I più fortunati hanno una casa, possiamo comunicare e godere delle arti attraverso l’etere, il quinto elemento. Certo, mi mancano i cinema, i teatri e i concerti, ma se fossimo stati completamente isolati, probabilmente, saremmo impazziti tutti».
C’è chi impazzisce, dopo tanto correre, per la quiete improvvisa. Abbiamo esagerato?
«Capisco il paradosso, ma non mi convince. In guerra hai la privazione della libertà, la violenza, la fame, lo sfregio della dignità. In questa situazione abbiamo un nuovo modello di vita da anteporre a un altro, speriamo solo temporaneamente. Ma un conto sono le bombe, un altro quello che abbiamo vissuto. Un passaggio di tempo duro. Uno shock pieno di lutti e sicuramente bisognoso di grande sostegno psicologico ed economico».
A trent’anni diceva di essere alla ricerca della felicità. L’ha trovata?
«Ora sono felice, ma so che quello che ho oggi l’ho voluto davvero perché ai sogni ho dato forma con le mie azioni».
Come si fa?
«Non si lasciano da parte e non si vagheggiano, ma ci si lavora. Mi sono confrontata con il mio fango, con le mie zone d’ombra, con le mie parti oscure. Le ho illuminate».
Com’erano queste parti oscure?
«Cappuccetto Rosso incontra il lupo e rischia. La parte oscura può essere negli incontri. Nella mia vita ce ne sono stati di funesti, dolorosi e pericolosi. Sono incontri che lì per lì credevo potessero lasciare solo rabbia senza insegnamenti, ma mi sbagliavo».
Ha trasformato quella rabbia in qualcosa di utile?
«Quando non sapevo come gestirla l’ho riversata contro me stessa. Mi sono fatta male e sono stata male. Dovevo sempre correre, essere al meglio, rispondere alle aspettative. Mostrandomi per quello che ero mi sentivo molto esposta, fragile e temevo di non essere all’altezza. Poi ho iniziato ad ascoltarmi e quella rabbia è diventata energia. Ho capito che non dovevo più nascondermi proprio perché non avevo idea di come si facesse. Ho capito che potevo ridere se avevo voglia di ridere e commuovermi se sentivo di farlo. Questa consapevolezza mi ha salvato».
Chi la fece uscire dalla rabbia?
«La volontà, la bellezza della vita e alcune persone illuminate che mi hanno aiutato a guardarmi dentro senza vergogna e a capire quanto c’era di tossico nei miei rapporti interpersonali, nelle mie relazioni e nelle mie amicizie. Alcune le ho perse per sempre, altre le ho ritrovate, ovviamente sull’altra sponda».
Come si sta sulla sponda dei salvi?
«Se hai già percorso una parte di strada buia e superato quella parte della vita tiri un sospiro di sollievo perché dici “poteva finire male”. Scegliere il bene è più faticoso. Prevede impegno. Ma dopo la fatica, la strada è più bella e piena di felicità. Ora che la divisa da Cappuccetto Rosso è nel baule da almeno 5 anni, considerando che l’ultimo anno ne vale almeno 10, ripensare ai miei vent’anni, glielo giuro, mi impressiona».
Cosa la impressiona?
«Non sapevo niente e non capivo niente. I vent’anni sono stati sicuramente inventati per non sapere di averli e per sprecarli, ma me ne rendo conto soltanto adesso. Quando osservo i ventenni provo una tenerezza infinita: capisco quanto fossi piccola e mi sentissi grande».
I ventenni li osserva. Ci parla anche?
«Li sento molto vicini. A volte mi viene la tentazione di dar loro consigli sulle cose che ho già vissuto, ma poi mi trattengo».
Perché?
«Perché è inutile. Non mi ascolterebbero proprio come a vent’anni io non ascoltavo nessuno».
Aveva sfiducia negli altri?
«Avevo sfiducia in me stessa e poi preferivo stare per conto mio, nel mio anacronismo. Con i miei scarponcini, i capelli rosa e i pantaloni lunghi. Sa cosa dicevano a mia madre? “Tua figlia è così carina, non potrebbe provare a essere un po’ normale?”».
Si sentiva anormale?
«No, al limite meditativa, contemplativa, ma con uno spirito molto attivo. Mi piaceva anche staccarmi dal gruppo, stare con me stessa, partire all’avventura. Per indole non provo rancore e non invidio nessuno, ma adesso un po’ d’invidia per chi può viaggiare la nutro. Il vero superpotere è sparire».
Il 2020 è stato un anno di fughe da fermo.
«Fino a un anno fa, appena finivo un lavoro importante partivo senza lasciare traccia di me se non a pochissimi amici. Affittavo una casa per 3 o 4 mesi in Europa e mi allontanavo da tutto».
Perché lo faceva?
«Perché mi piaceva che gli altri mi vedessero per quello che sono, senza sovrapporre il mio mestiere, perché sono sempre stata curiosa e perché ogni tanto, soprattutto nei momenti di pausa, bisogna anche ascoltare un po’ di silenzio».
Ne sente la mancanza?
«C’è molto rumore di fondo. So che è strano dirlo facendo il lavoro che faccio, ma credo che una delle nostre rovine sia il bisogno di piacere a ogni costo. Di dire la propria, di postare una foto, di rendere ogni secondo instagrammabile».
Instagram lo usa anche lei.
«Ma infatti il problema non è Instagram, ma tentare di guardare oltre uno schermo. Una settimana fa mi si è rotto il telefono. Avrei potuto cambiarlo immediatamente, ma ho fatto un esperimento. Ho scelto di non farlo. Ho perso la memoria, le chat, le foto. È stato come ricominciare da zero. In quella settimana di disintossicazione sono andata sul set con un amico. Nei momenti in cui non conversavamo lui non ha mai distolto gli occhi dal display. Ma fuori, oltre il finestrino, c’era la bellezza».
Cosa le fa più paura in assoluto dei social?
«La voglia di gogna generalizzata. È vero che veniamo da un anno irripetibile e che siamo tutti compressi e chiusi, al bivio tra disperazione e depressione, ma non per questo consola vedere le fogne a cielo aperto. C’è un desiderio violento di prendere posizione su ogni argomento che è la spia di un malessere profondo. Si sente una voce in lontananza, non ci si preoccupa di verificarla e si spara nel mucchio plaudendo alla giustizia sommaria, allo sputtanamento, alla shitstorm».
Lei come si tutela?
«Non cedendo alla tentazione di dire la mia ed evitando di rispondere al commento cretino. Non vedo alcun vantaggio ad accendere un riflettore sul nulla. Meglio l’oblio».
La felicità è buona salute e cattiva memoria?
«Sì, senz’altro, ma anche un piatto di pasta».
E con i ricordi come si comporta?
«Do loro la possibilità di posarsi dolcemente o di inabissarsi per sempre».
Solitamente perdona chi l’ha ferita e le chiede scusa?
«Dipende dalla profondità della ferita. Se hai creato un terremoto che ha distrutto ogni cosa probabilmente no. Poi, nelle scuse, devi essere sincero. Le scuse senza un cambiamento sono soltanto una manipolazione».
Quante persone hanno provato a manipolarla?
«Immagino tante».
E riesce a immaginare anche quante volte agli altri è accaduto di essere manipolati da lei?
«Immagino che qualche volta, soprattutto nelle relazioni, sia accaduto. Onestamente non saprei, immagino di aver sperimentato la manipolazione e di non averla trovata divertente».
Il primo amore?
«Eravamo grandi amici, siamo rimasti tali. Ho fatto disastri in amore, tanti disastri. Con il tempo ho capito cosa non mi faceva stare bene e perché ero attratta da persone problematiche e difficili che più che di una fidanzata avrebbero avuto bisogno di un’assistente sociale».
L’abbaglio è la regola e la difficoltà la norma?
«Esiste anche la possibilità che l’amore sia semplice: è l’eccezione ed è eccezionale. Anche io a 12 anni soffrivo per ragazzi che non sapevano neanche della mia esistenza. Ma se ti accade molto dopo e se sei felice solo nella sofferenza, la questione è materia per analisti molti bravi».
Si è mai sentita ingannata?
«A fregarci sono sempre le aspettative eccessive. Da piccola investi tutto in un’idea e poi magari ti arrabbi e ti senti tradita, ma bisogna essere lucidi e onesti e saper dire ogni tanto: “È colpa mia”. Va bene, ho sbagliato. Però è necessario andare avanti. Non esiste niente di più potente della nostra capacità di reagire e di ricominciare. Perché a un certo punto arriva il vero amore e lo riconosci non per le farfalle nello stomaco, ma proprio perché te lo toglie il mal di pancia».
Morale, ribelle, libera. Sono tre aggettivi che le somigliano?
«Sono tre aggettivi che mi piacciono. Direi che la difficoltà di metterli insieme risiederebbe nella sintesi. Non è la mia specialità, la sintesi».
Provo con una domanda sintetica: si sposa nel 2021?
«Dpcm permettendo?». (sorride)
Sia seria.
«Sono seria. Non lo dico su un giornale né tantomeno sogno di fare uno scoop. Diciamo che sono felice e innamorata, ma rimango riservata perché le cose preziose sono le più fragili. Vanno curate, protette e conservate. La cristalleria non la metti in lavastoviglie proprio come la felicità non la sbandieri ai quattro venti. Quando accadrà, comunque, nonostante il mio riserbo che non è una posa ma un modo di essere, lo condividerò con chi mi ha dato forza in questi anni. Che ci fosse vento o calma piatta, a spingermi sono stati soprattutto loro».
Loro chi?
«Chi mi ha dato fiducia, chi è stato indulgente con me, chi ha creduto che potessi farcela. Anche se la fortuna non è piovuta dal cielo sono stata fortunata. Ed è un bene, perché se avessi lasciato tutto al caso mi sarei annoiata».
Si è riscoperta invece incredula?
«A Cannes, anni fa, con il cast di Bellocchio per il red carpet di Fai bei sogni, io stessa non ci credevo. Mi guardavo da fuori e mi sussurravo: “Ma tu qui sei un’abusiva, un’intrusa, e se poi ti scoprono? Ti cacciano dal reame?”. Mi sono sempre sentita una outsider. Oggi finalmente mi sento libera anche dal giudizio più severo: il mio».
Non avrebbero potuto cacciarla. Lei è stata incoronata.
«È quello che penso anche io. Mi avevano detto di restituirla quella corona, ma ho disubbidito. È una corona vera, quella di Miss Italia».
Se le dico indipendenza a cosa pensa?
«A una cosa bellissima, la non dipendenza. E poi all’autonomia e anche alla solitudine. Per tanti anni mi sono sentita molto sola. Diffidavo dell’aiuto altrui. Mi sembrava di scendere a compromessi. Viaggiavo libera, con il vento in faccia. Con più fatica ma anche con più gioia. Fare il deserto in solitaria ha un suo fascino».
Il primo set?
«Con Giovanni Veronesi. Fu un’illuminazione. Mi dissi: “Ma io non voglio fare altro”. Sul set sono sempre felice. Non mi sveglierei alle sei e mezza per nessun’altra ragione al mondo. Invece per non arrivare in ritardo al camper trucco, sì. Detesto arrivare in ritardo, amo tutti i mestieri del cinema, sono curiosa, faccio domande e partecipo attivamente alla costruzione del personaggio, dalla scrittura ai costumi».
C’è chi il set lo trova noiosissimo.
«Il set non è fatto per gli esterni al set. Da fuori sembra un gruppo di matti intenti a costruire mondi più veri del vero che nella realtà non esistono. Molti amici mi chiedono di venire ad assistere alle riprese e io provo a dissuaderli invano. “Se insisti ti porto, ma ti garantisco che non vorrai più tornare”. Non c’è nessuno che me l’abbia mai chiesto due volte».
Lei si sente autentica?
«Io sono sempre autentica. Mi capita di dover fingere di sorridere? Certo che mi succede, ma a volte è solo questione di educazione. Ci invitano tutti, ossessivamente, a essere come siamo. “Dovete essere voi stessi”, ci dicono. È un imperativo assoluto il “sestessismo”, una nuova religione. Ma quando un concetto si trasforma in slogan secondo me diventa vuoto. Se sei uno stronzo, essere se stessi è un valore? Conoscere se stessi è un valore proprio come lo è prendersi cura di se stessi. Perché la perfezione, bisognerebbe arrendersi a questo, non esiste».
Cosa resiste della Miriam Leone di ieri?
«La risata sincera, cantare tanto e accettare con umiltà i miei scompensi e le mie ignoranze. Sentirsi ed essere niente e nessuno, a volte, aiuta molto. Dà la possibilità di mettersi in ascolto. Di imparare».
Cosa ha imparato soprattutto?
«Ad amare e a lasciarmi amare. Che mi piaccio di più, ma non del tutto. Che devo migliorarmi. E poi che la vita va “surfata” come le onde del mare, il mio più grande maestro: con un respiro continuo e un continuo movimento. Va vissuta, la vita, per quel che dà. Va celebrata e lasciata fluire. Non siamo noi a deciderne l’indirizzo. Perché la vita se ne va. E questa consapevolezza deve diventare la nostra forza più grande».
Però cambiamo.
«E meno male. Certe scelte di oggi, con la testa di dieci anni fa, non le avrei fatte. Ma il tempo non lo puoi fermare: puoi solo accompagnarlo con grazia. Deve servire a crescere. Come dice De André: è triste trovarsi adulti senza essere cresciuti».
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