Giovanni Allevi sbarca su RaiPlay: «Il mio spirito sovversivo»
Giovanni Allevi lo mette in chiaro subito, come se fosse un avvertimento: «Parlerò molto lentamente, così riesco a pensare meglio a quello che devo dire. Spero non sia un problema». Nonostante la timidezza gli renda difficile parlare al telefono, il compositore dai capelli arruffati e dal sorriso contagioso non potrebbe essere più felice di così: Allevi in the Jungle, la docuserie sulla quale ha lavorato a partire dalla scorsa estate e che lo ha visto impegnato nella ricerca di un contatto con i cosiddetti buskers, gli artisti che hanno fatto della strada il loro palcoscenico, è disponibile su RaiPlay a partire dal 21 dicembre con i primi quattro episodi, ai quali seguiranno uno speciale di Natale ambientato a Milano e gli ultimi quattro appuntamenti, che saranno caricati sulla piattaforma il 28 gennaio. «Sono completamente coinvolto da questa nuova avventura» spiega Allevi dalla sua casa di Milano, ragionando sul tornare ad Ascoli dai genitori per trascorrere insieme il Natale. «Premesso che sono una persona estremamente timida e asociale, che non parlo mai con nessuno e ho difficoltà a stare al telefono, mi sono letteralmente lanciato in quest’impresa durante la pandemia» racconta Allevi aggiungendo che l’idea di Allevi in the Jungle ha cominciato a germogliare dentro di lui proprio nel pieno della prima ondata, quando era impegnato in una serie di dirette su Facebook dal titolo Gli incontri clandestini, un mix tra filosofia e pianoforte.
Racconti.
«Durante queste dirette non potevo certo immaginare che dall’altra parte dello schermo ci fossero quei pazzi genialoidi di Twister Film, la casa di produzione cinematografica votata al linguaggio pubblicitario di alto livello. Da questo nostro incontro è nata l’idea di realizzare Allevi in the Jungle».
È curioso che nella docuserie lei, che ha problemi a instaurare un contatto, cerchi di avvicinarsi e di aprire un canale di comunicazione con questi artisti.
«Mi ha spinto il fatto di incontrare queste persone straordinarie, i buskers. Li considero dei ribelli e dei rivoluzionari perché, nel loro gesto e nella loro arte, rifiutano tutti gli stereotipi della società conformista che ci circondano. Non si preoccupano del consenso, non gli importa di avere una vita sui social: dedicano anima e corpo al perfezionamento del proprio spettacolo e della propria forma espressiva. Davanti a questi interlocutori straordinari, ho potuto solo cercare di cogliere la scintilla dalle loro parole: cosa li ha portati ad andare controcorrente per assecondare la loro natura più profonda? Trovo il loro messaggio dirompente. Soprattuto in un’epoca un po’ annoiata e sfiduciata come la nostra. Il paradosso è che, durante questi dialoghi estemporanei, sono stati loro a consolare me».
La spinta anticonformista è una cosa che avete in comune, non crede?
«Eccome. Dopo le paure iniziali – sono una persona che fugge davanti alla telecamera -, mi sono accorto che questa spinta anticonformista veniva completamente incontro al mio intento sovversivo, alla voglia di dimostrare che la vera cultura, la vera arte e il vero spirito innovativo partono dalla strada, non dagli ambienti protetti della torre d’avorio. Penso che questo sentimento si sia sviluppato in me a causa dei difficili trascorsi che ho avuto con il mondo accademico musicale: in questo senso, Allevi in the Jungle si è rivelata un’esperienza quasi liberatoria».
Il 24 dicembre vedremo, sempre su RaiPlay, il concerto che lei ha realizzato alle Colonne di San Lorenzo a Milano. Che emozione è stata?
«L’emozione più grande è stata scoprire una Milano meno addobbata e meno luccicante, ma avvolta nell’abbraccio di un calore umano straordinario, che non è mai stato così vivo e intenso come in questo momento».
Questo calore lo ha trovato durante il confinamento?
«Sono assolutamente convinto che il lockdown abbia rappresentato per molte persone l’occasione di un allargamento della mente: nuovi orizzonti, nuovi amori, nuovi scenari, la riscoperta di un affetto e di una solidarietà. Come se si fosse affacciata nella mente delle persone una nuova epoca, un futuro più bello. I caratteri distintivi di questo nuovo mondo sono una minore competitività e una maggiore solidarietà, senza contare l’irrompere del femminile».
Cioè?
«Sono convinto che questo decisionismo ottuso e ipercompetitivo maschile, espressione di una volontà di potenza, lascerà il passo a un principio nuovo in cui la protagonista sarà un’intuizione, una dolcezza, una capacità di accogliere il nuovo e il diverso».
È la speranza un po’ di tutti, anche se la realtà spesso stride con questo desiderio.
«Credo davvero che un nuovo modo di vedere le cose si sia affacciato durante la pandemia nonostante le difficoltà e il dolore che molte persone hanno vissuto».
Torniamo a lei: sta continuando a comporre?
«Da un certo punto di vista sono disoccupato: la mia attività ha subito un blocco totale drammatico, ma lo dico con il sorriso perché è una condizione che, purtroppo, ha investito moltissime persone nel loro lavoro. Questo momento di incubazione è il preludio a un futuro più bello dove torneremo alle nostre attività con un nuovo entusiasmo e una nuova consapevolezza. In questo periodo ho continuato a comporre musica, che si è fatta ancora più intensa e profonda perché ha risentito del duplice sentimento che tutti stiamo vivendo: il buio e l’inquietudine da una parte e la speranza di una luce e di un abbraccio dall’altra».
Che è un po’ quello che ha cercato di trovare in Allevi in the Jungle.
«Ho sentito questa speranza nella voce dei buskers e, infatti, sono davvero curioso di vedere come questo progetto così nuovo e così vero sarà percepito dall’immaginario collettivo».
Mi scusi se glielo chiedo: ma per una persona che si definisce asociale, il lockdown può aver rappresentato una sorta di «sollievo» in un primo momento?
«Quando è iniziato, mi sono accorto di esserci sempre stato in quella condizione, con la differenza che si era bloccato il mio lavoro. Non ho mai cercato il contatto per una mia natura, non ho mai fatto vita mondana ed esco pochissimo di casa, però mi accorgo che, in quello che è il mio sogno e la mia attività, è molto più importante guardarsi dentro anziché farsi influenzare dagli stimoli che hai intorno. Forse è per questo che ho sviluppato una forma di isolamento ai limiti dell’ascetismo. Quando in un tempo ormai passato facevo i concerti in teatro con il pianoforte, avevo la sensazione che dalla mia solitudine nascesse un ponte verso un abbraccio collettivo: questo era per me commovente e inspiegabile».
Immagino che sia molto forte l’idea di voler riprendere a costruire questo ponte al più presto.
«È la mia ragione di vita. Attendiamo che gli eventi si spostino verso una lancetta più positiva».
A proposito del consumo della musica dal vivo o in streaming di cui non si fa che parlare da mesi, lei da che parte sta?
«È come se venissi da un’altra epoca, tipo dal Settecento: per me l’importante è scrivere, inventare musica nuova. I mezzi con cui viene diffusa non li conosco e non sono un mio problema immediato. Per me la musica è un pentagramma vuoto da riempire di note».
Come la vita.
«Proprio così, e dobbiamo sforzarci per fare in modo che sia un capolavoro, un’opera d’arte che possiamo creare ogni giorno. Se stiamo dietro a tutti gli stereotipi che la società ci impone, il rischio è dimenticarci il capolavoro che potremmo essere e diventare. Con un gesto di coraggio dobbiamo, invece, liberarci da queste sovrastrutture e tornare a sentire sgorgare in fondo alla nostra anima una felicità indescrivibile. L’intento sovversivo che le dicevo prima».