Dalla ritirata di Russia al campo tedesco. La storia amara dell’alpino Pietro Santi
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Castelnovo Monti, il 27 gennaio scorso in prefettura è stato insignito della Medaglia d’onore alla memoria. Il figlio Enrico: «Vi racconto la vita di mio padre per non dimenticare il valore della democrazia»
CASTELNOVO MONTI. Il 27 gennaio scorso, in prefettura a Reggio Emilia, si è svolta la celebrazione per la consegna delle Medaglie d’onore conferite, con decreto del Presidente della Repubblica, a 14 cittadini di Reggio Emilia deportati nei lager nazisti durante la seconda guerra mondiale. Tra questi c’era anche Pietro Santi di Castelnovo Monti. Alla cerimonia hanno partecipato il figlio, Enrico Santi, sua moglie Nicoletta e il sindaco Enrico Bini. «È stato un momento molto toccante, una grandissima emozione – raccontano il figlio e la nuora – Abbiamo scolpiti nella memoria i racconti di Pietro sulla sua esperienza di prigionia, sul grande dolore per quello che aveva vissuto e aveva visto, che traspariva anche se lo raccontava sempre con grande delicatezza». «È fondamentale ricordare figure ed esperienze come quella di Pietro – aggiunge Bini – perché dobbiamo tramandarle ai giovani, far capire per cosa tanti nostri compaesani e montanari hanno lottato e sofferto negli anni della guerra. Per far capire l’enorme valore che ha la nostra democrazia e le istituzioni che la compongono, dato che a volte tendiamo a sminuirle e a sottolinearne solo gli aspetti che ci infastidiscono».
La storia. «Mio padre – racconta il figlio – Inizia il servizio militare negli Alpini, Brigata Tridentina, sesto Reggimento, Battaglione Verona. Dopo un anno circa di permanenza sul fronte occidentale, ai confini con la Francia, a seguito dell’occupazione tedesca avvenuta in pochi giorni, nel giugno 1940, viene mandato con il suo battaglione sulle montagne albanesi a combattere contro i greci. Dopo la caduta della Grecia rientra in Italia e da Bari viene inviato ad Asti. Nell’estate del 1942, viene spedito sulle rive occidentali del Don per l’inizio della drammatica campagna di Russia».
La ritirata di Russia. «Nel gennaio del 1943 inizia la potente controffensiva russa che distrugge completamente le divisioni italiane posizionate a Nord; essendo la divisione di mio padre più a sud poterono organizzare la ritirata, durata circa venti giorni. Alla brigata Tridentina si accodano tutti i reparti dispersi che formano una colonna interminabile di disperati» racconta. «Mio padre – prosegue Santi – raccontava spesso la durezza di quella tragica marcia di rientro, al gelo, con uomini affamati, spossati, con il terrore di ammalarsi o di non avere più le forze per proseguire il cammino e di conseguenza morire assiderati».«Proprio a lui capitò, circa a metà percorso, di ammalarsi: febbricitante e con un grosso ascesso fu grazie alla grande umanità di un suo compagno, che poi divenne un suo amico per tutta la vita, che riuscì a salvarsi poiché lo trasportò sulle sue spalle per decine di chilometri» rivela ancora il figlio di Pietro Santi, raccontando la storia del padre.
I carri armati russi. Dopo circa tre settimane di marcia Pietro e il resto delle truppe arrivano a Nikolaevka, un grosso paese con una enorme spianata coperta da neve e ghiaccio. «Lì – racconta – rimangono impietriti perché si accorgono di essere circondati dai carri armati russi. Nella più totale disperazione, convinti di avere di fronte solo la morte, seguono il loro generale Luigi Reverberi, di Montecchio, che con una mossa estremamente coraggiosa e ardita riesce a farli uscire dall’accerchiamento». Pietro è tra i fortunati che sopravvivono alla tragica battaglia. Ripreso il viaggio di rientro, i superstiti arrivano al Brennero dove ricostituiscono i reparti che erano rimasti senza armi e soldati.
La cattura dei tedeschi. «All’alba del 9 settembre del 1943 – prosegue Santi – a seguito della firma dell’armistizio da parte dell’Italia di cui non vennero per nulla informati, si ritrovarono circondati dai carri armati tedeschi e furono fatti prigionieri. Mio padre venne portato nel campo di concentramento di Hollenstein in Prussia orientale dove rimase per tutto l’inverno. All’inizio del 1944 venne mandato in un’azienda agricola nelle vicinanze del campo dove, avendo esperienza di cavalli, fu impiegato come stalliere e conducente dei cavalli da tiro nei lavori quotidiani nei campi. Qui rimase circa un anno fino all’arrivo dei russi all’inizio del 1945. A questo punto venne fatto prigioniero dai russi che lo trasferirono a Leopoli in un campo di concentramento e smistamento dove rimase per svariati mesi anche dopo la fine della guerra. Raccontava che durante questa attesa infinita dove fame e freddo regnavano sovrani, la principale preoccupazione era capire la loro destinazione: essere spediti verso est con destinazione Siberia e morte sicura o verso ovest con ritorno a casa. Finalmente – conclude Enrico Santi – all’inizio di dicembre del 1945 venne rilasciato e poté fare rientro a casa il 23 dello stesso mese quando tutti, dopo 6 anni di assenza, erano convinti fosse morto o disperso».
Una volta rientrato a casa, Pietro si sposa con la fidanzata Anita che lo aveva aspettato per tutti quei lunghi anni. Nel dopoguerra diventa presidente della sezione di Felina dell’Associazione Nazionale Alpini. Muore il 10 ottobre 1990 nel letto di casa, tre giorni dopo l’amatissima moglie. Ora arriva questo prezioso riconoscimento.