«Io avrei potuto benissimo vivere in una casa modesta», scrisse Gabriele d’Annunzio il 6 aprile 1886 a Maffeo Sciarra, direttore de La Tribuna, «sedere su seggiole di Vienna, mangiare in piatti comuni, camminare su un tappeto di fabbrica nazionale, prendere il tè in tazze da tre soldi, soffiarmi il naso con fazzoletti di Schostal o di Longoni. Invece, fatalmente, ho voluto divani, stoffe preziose, tappeti di Persia, piatti giapponesi, bronzi, avorii, ninnoli, tutte quelle cose inutili e belle che io amo con una passione profonda e rovinosa». Gabriele voleva sentirsi «un principe del Rinascimento», fra «cani e cavalli e belli arredi». Il Vittoriale è stata la sua unica, vera casa, dove − divenuto guerriero, conquistatore di città, legislatore e principe come aveva desiderato − lascia per sempre l’impronta del suo stile. Ha già raggiunto le vette dell’arte, della guerra, dell’amore, ora vuole specchiarsi nell’essenza della materia. Il Vittoriale è una dichiarazione di poetica, il manifesto antropologico e culturale di un’estetica della libertà, della fantasia e dell’intelletto. Il bello, in quanto tale, non conosce gerarchie, semmai contempla contaminazioni: può essere custodito nell’accostamento degli emblemi che affollano la facciata della sua residenza come nei brandelli di una stoffa orientale, nelle scatole di latta liberty come nella chincaglieria esotica accumulata senza un ordine apparente. 

La Zambracca, anticamera-studio sul cui tavolo il «sommo poeta» Gabriele d’Annunzio morì di emorragia cerebrale il primo marzo 1938

Il Vittoriale degli italiani

La Zambracca, anticamera-studio sul cui tavolo il «sommo poeta» Gabriele d’Annunzio morì di emorragia cerebrale il primo marzo 1938
Marco Beck Peccoz

Non è facile calarsi in un’atmosfera dove tutto è ridondante e ancora oggi capita spesso di sentire tra i visitatori esclamazioni di entusiasmo frammiste a voci diffidenti, a perplessità («come ha potuto vivere qui?»); alcuni, contagiati dall’arcano che aleggia in quelle stanze, si sentono confusi, soffocati. Capire il Vittoriale senza conoscere d’Annunzio è come guardare i geroglifici prima della Stele di Rosetta, belli e incomprensibili. La sua vita al Vittoriale sublima una ricerca di solitudine e contemplazione, un bisogno di immortalità e infine il punto più alto della sua dottrina lirica, quando il laborioso artefice realizza il proprio scopo: «Esprimere! Ecco la necessità!». Al Vittoriale Gabriele ha potuto vivere, appunto, esprimendosi, con una totalità che non ammette interpretazioni, amalgamando la forma e il contenuto, rovesciando la plateale esibizione della sua esistenza di istrione e di genio nella quotidiana definizione del proprio essere e della propria interiorità, nell’ininterrotta scrittura di se stesso. E forse è solo qui – nella bellezza di questo libro-dimora – che fortune e sfortune, apologie e messe al bando, polemiche e promozioni possono trovare fine, riscattate dall’oggettività innovativa della sua arte, senza l’astiosa e postuma contesa tra i detrattori dei suoi vizi irredimibili e le vestali nostalgiche della sua irresistibile leggenda. Di questa vita, tra le mura della Prioria o tra le viuzze alberate del giardino del Vittoriale, noi sentiamo ancora la presenza. Piuttosto che di un museo, dobbiamo parlare quindi di un luogo pulsante che ci suggerisce ancora una vitalità presente e non postuma. Il Vittoriale è un’opera immutabile ma aperta, che richiede di essere vissuta come sintesi della bellezza. Il Vittoriale degli Italiani è ancora il «Libro di pietre vive» voluto da d’Annunzio. E il futuro di entrambi sarà molto più lungo del loro passato. L’Italia si ritrova ancora oggi con un lascito immobiliare e culturale unico al mondo. Basti pensare alla biblioteca di d’Annunzio, con 33.000 volumi, in gran parte pregiati, a un archivio di milioni di carte e documenti, alle persone di tutto il mondo che a centinaia di migliaia lo visitano ogni anno pagando un biglietto, alle decine di dipendenti, a un intero paese, Gardone Riviera, che nel Vittoriale ha “l’azienda” capace di provvedere al lavoro di commercianti e fornitori, oltre che dei numerosi dipendenti e collaboratori. Nel 2012 il Vittoriale ha vinto il Premio per il “Parco più bello d’Italia”, e non stupisce. Un’altra passione di d’Annunzio, ulteriore elemento della sua modernità, era quella per la natura. Ecologista ante litteram, anticipa i tempi, come in tanti altri aspetti della sua sensibilità. L’autore di poesie indimenticabili sulla natura, il cantore della comunione tra uomo e bosco, creatura e mare, essere animale e creato, protesta contro l’arbitrio umano, contro l’arroganza di chi uccide il bello indifeso: «Perché il mio già penosissimo sabato fosse funestato», scrive una volta a GianCarlo Maroni, «seppi ieri che furono abbattuti i bei cipressi della darsena, lungo la riva lacustre! Perché?». Soffre davvero: «Io che mi rattristo per un filo d’erba calpestato»…

Giordano Bruno Guerri, storico, saggista, giornalista e presidente del Vittoriale degli Italiani

Giordano Bruno Guerri

Giordano Bruno Guerri, storico, saggista, giornalista e presidente del Vittoriale degli Italiani
Marco Beck Peccoz

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