Raffaella Carrà, l’icona pop globale che cantò Trieste in quell’inno dell’amore libero
Quando nel 1978 uscì il singolo “Tanti auguri” Trieste ebbe un suo inatteso momento di gloria. Quel ritornello che ancora oggi risuona come simbolo delle gioie dell’amore e della libertà sessuale è rimasto appiccicato alla città di Trieste come una specie di codice identificativo: città del caffè, della bora, delle clanfe e dell’amore.
E dire che Trieste in quegli anni non era esattamente un simbolo di progresso: all’indomani di un mal digerito Trattato di Osimo, in politica dilagava la Lista per Trieste, la questione del bilinguismo teneva vive le tensioni di un confine ancora vissuto come opprimente, i venditori di jeans erano fra i pochi a fare buoni affari e nel complesso i triestini non si sentivano poi così “pop”.
E invece ecco che, d’improvviso, per una strofa uscita dalla penna di Gianni Boncompagni e Daniele Pace, su “assist” di un triestino doc come Lorenzo Pilat, e un refrain strimpellato sulle note di Paolo Ormi, Trieste diventava punto estremo e di partenza di un vero e proprio atto liberatorio lanciato verso territori indistinti.
Il ritornello “come è bello fa l’amore da Trieste in giù” entrò nelle case degli italiani il 4 marzo del 1978 come sigla iniziale dello show “Ma che sera”. Era anche la prima volta che Raffaella Carrà compariva a colori sul piccolo schermo, e pure in abiti succinti. Come ha titolato l’anno scorso nientemeno che “The Guardian”, ricordando i successi della Carrà in un articolo su una mostra della Fondazione Prada dedicata alla televisione italiana degli anni Sessanta e Settanta, “Raffa” è stata senza dubbio “La popstar che ha insegnato all’Europa le gioie del sesso”.
Nello stesso articolo il curatore della mostra Francesco Vezzoli, fece notare che allora potè più la canzone della Carrà che anni di femminismo, per dare la sveglia a milioni di casalinghe ancora caute a quattro anni dal referendum abrogativo della legge sul divorzio.
E dire che la trasmissione della Rai andò in onda nei giorni del rapimento Moro, tra i periodi più oscuri della prima Repubblica, tanto che la stessa Carrà avrebbe voluto interrompere il programma. Niente da fare, il ritornello di “Tanti auguri”, ancora oggi canzone simbolo per la comunità Lgtb, arrivò come una ventata di gioia irrefrenabile.
I triestini avevano visto dal vivo Raffaella Carrà solo nel 1965, quando al Teatro Rossetti recitò ne “Il seduttore” di Diego Fabbri interpretando, con Scilla Gabel e Relda Ridoni, quella che “Il Piccolo” definì “le tre punte della trinità amorosa”. Già allora se ne erano potute apprezzare le grazie.
E anni dopo, quando i triestini la videro cantare “Tanti auguri”, all’improvviso si trovarono loro malgrado portabandiera di un’idea nella quale, a conti fatti, riconoscevano quel certo “morbin” che non li abbandona mai, nemmeno nei momenti più oscuri. Allora non poterono non provare un certo moto di orgoglio per essere stati piazzati, una volta tanto, al limite estremo di qualcosa che aveva a che fare con l’amore – perdipiù amore libero – e non con la guerra. —
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