Joe Biden, un presidente nel suo labirinto
Con la fallimentare gestione del ritiro dall'Afghanistan, il numero uno della Casa Bianca si è alienato il consenso di molti democratici. Così la strategia dei nuovi interessi americani deve ora fare i conti con una leadership appannata in campo internazionale, e contestata anche su cruciali dossier interni.
«Nessuna sorpresa, anzi una conferma». Gli osservatori più cinici e navigati non perdono l'occasione per sottolineare come con Joe Biden alla Casa Bianca l'ipotesi «disastro» fosse tutt'altro che marginale. «Nei suoi anni come presidente della commissione per le relazioni estere del Senato e come vice presidente è stato spesso al centro di tragici deragliamenti internazionali» dice l'analista Harry Kazianis del Center for the national interest. «L'Afghanistan è solo l'esempio più attuale, ma potrebbe rivelarsi il più costoso».
Ciò che viene contestato al 46esimo presidente degli Stati Uniti non è tanto la scelta di chiudere la missione, ma il fatto di aver completamente sbagliato i calcoli sulla tenuta delle istituzioni e delle forze di sicurezza locali. A inchiodarlo sono i discorsi pronunciati a ritiro in corso, come quello dell'8 luglio, quando ha detto che non sarebbero stati necessari gli elicotteri per mettere in salvo il personale dell'ambasciata e che in nessun modo ci sarebbe stata un'avanzata letale dei talebani.
Un mese e una settimana dopo, i fondamentalisti erano già a Kabul per proclamare la rinascita dell'Emirato islamico di Afghanistan e i media, solitamente indulgenti con l'attuale inquilino della Casa Bianca, hanno evocato immagini che gettano sale sulle ferite ancora aperte, parlando di «nuova Saigon» e accusando il commander-in-chief di «tragico disastro di politica estera».
Una cosa è certa: tutto ciò che sta accadendo è frutto di un calcolo di politica interna elaborato da Biden e volto a conquistare il consenso di chi in America non comprendeva più la ragione di una missione tanto duratura e costosa (in termini di risorse e soldati), ed esprimeva malessere in questo senso. Lo stesso malessere intercettato ancor prima da Donald Trump e che ha motivato la sua corsa al negoziato di Doha con i talebani per chiudere la guerra più lunga di sempre.
Un elettorato su cui il presidente vuole fare breccia in vista del voto di Medio termine del 2022 e più in là di Usa 2024. Tuttavia, di fronte alle umilianti immagini della fuga caotica da Kabul, è crollato pure il sostegno al ritiro delle truppe: secondo un sondaggio condotto dai media Politico e Morning Consult dal 13 al 16 agosto, solo il 49% degli elettori sostiene la decisione di Biden contro il 69% di aprile, quando aveva annunciato che tutte le forze Usa sarebbero uscite entro l'11 settembre.
Parallelamente, il consenso del presidente è sceso per la prima volta sotto il 50%. Nbc News rileva che il suo tasso di approvazione è arrivato al 49% (contro il 53% di aprile) e la disapprovazione al 48% (contro il 39%). Ma sulla gestione della crisi in Afghanistan i numeri sono ancora più impietosi: a bocciarla è il 60% degli intervistati, mentre solo il 25% dà un giudizio positivo. Se poi si guarda ai numeri raccolti da Reuters e Ipsos nel week-end in cui i talebani hanno preso il controllo di Kabul, l'approvazione di Biden è crollata di sette punti in due giorni (dal 53 al 46%), arrivando al livello più basso da quando è entrato alla Casa Bianca.
Il suo errore maggiore, ribadiscono gli osservatori, è stato sui tempi, ed è dovuto alla sopravvalutazione di tenuta delle forze afghane. Mentre i militanti avevano sviluppato una capacità strategica e militare rilevante e dalla loro avevano il collante ideologico, ovvero la religione, i governativi erano sprovvisti di tutto questo. La mancanza di fiducia nelle istituzioni e la corruzione imperante hanno ulteriormente accelerato il disastro.
Di ciò Washington era al corrente, e lo scenario di una presa di potere dei talebani era stato già ampiamente messo in conto dagli 007 di Langley e dallo stesso Biden. La vera falla è stata l'incapacità di capire quanto fosse fragile «l'architettura istituzionale» privata di quel sistema di deterrenza che era rappresentato dalla presenza delle forze Nato sul territorio, e per un presidente della nazione più forte al mondo non è il massimo.
Molti parlano di nuova Saigon, ma l'esempio più calzante è il fallimento riportato nel 2013 dall'intelligence sul dossier siriano. In Siria, gli Usa di Barack Obama e del segretario di Stato John Kerry hanno inseguito la chimera dell'intesa con l'opposizione moderata in chiave anti-Assad per troppo tempo, prima di capire che occorreva intervenire direttamente contro lo Stato islamico, o il rischio era vedere le bandiere nere sventolare a ridosso di Damasco.
Così fecero, ma non prima di aver fornito ai ribelli cosiddetti «moderati» soldi e armamenti in molti casi finiti nelle mani di al-Nusra e Isis, ovvero gli stessi contro cui gli Stati Uniti si sono poi trovati a combattere per cinque anni. Allora a guidare il Paese, come vice di Obama, c'era il navigato Biden. Il quale, oltre un lustro dopo, come una nemesi storica, si trova a fare i conti col suo primo fallimento da presidente, per di più in occasione di una grande manovra di politica estera, il terreno che avrebbe dovuto rappresentare il suo punto di forza.
Del resto il dossier non è l'unico in cui il comandante in capo tradisce difficoltà, basti pensare alla crisi sul confine meridionale, dove si registrano numeri da capogiro in termini di arrivi di migranti senza permesso e detenzioni di minori. O i problemi sul fronte della lotta al coronavirus, con la ripresa dei contagi specie negli Stati del Sud dove c'è maggiore resistenza alle vaccinazioni. Per non parlare dei dissidi con l'ala sinistra del partito democratico che condiziona diverse azioni di politica interna, come ha dimostrato il complicato passaggio in Senato della legge sulle infrastrutture da 1.200 miliardi di dollari.
E all'orizzonte si profila un altro grattacapo sulla conferma di Jerome Powell a un secondo mandato alla guida della Federal Reserve (com'è consuetudine), osteggiata dai progressisti capeggiati da Elizabeth Warren, che accusa il capo della Banca centrale Usa di essere «troppo poco aggressivo sul piano della regolamentazione finanziaria». Un test su cui si valuterà la tenuta del presidente (il quale ha sempre espresso stima e fiducia in Powell) rispetto alle spinte interne dell'ala più liberal della maggioranza. Tenuta che si misurerà anche, tornando alla politica estera, sulla nuova proiezione americana nella regione dell'Indo-Pacifico, che ha sostituito quella centroasiatica prossima all'archiviazione con l'uscita di scena definitiva dall'Afghanistan.
«Chi si fiderebbe ora di Biden in una crisi?» si domanda Kazianis. Guardando le immagini di Kabul, il numero uno della Casa Bianca sarebbe davvero in grado di andare in aiuto della Corea del Sud nel caso la Corea del Nord attaccasse? O di Taiwan in una crisi con la Cina?». In attesa di risposte è da leggere con attenzione la dichiarazione che da Taipei fa recapitare la presidente Tsai Ing-wen: «Mentre osserviamo gli eventi, voglio chiarire che i taiwanesi sono impegnati nella difesa della nostra nazione. Siamo disposti e determinati a difendere i nostri valori e continueremo a lavorare con partner che la pensano come una forza globale per il bene».