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Декабрь
2021

Addio Lina Wertmüller: la sua cinepresa come un’arma

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Ode a Lina. Se il cinema italiano dei Settanta si rinvigorì con sostanza, disinvoltura nel linguaggio, satira sociale e politica, aggressività nei costumi e sapiente indecenza lo si deve a lei, a Lina Wertmüller, grintosa signora della Roma altolocata dal nome infinito, come i titoli dei suoi film iconici (tanto quanto i suoi inconfondibili occhialetti bianchi): Arcangela Felice Assunta Wertmüller von Elgg Spanol von Braueich. A 93 anni e dopo una carriera folgorante per una donna-regista nata negli anni Venti — l’unica italiana a essere candidata all’Oscar come regista per “Pasqualino Settebellezze” nel 1977 e l’anno scorso Oscar alla carriera — ieri ci ha lasciato e, dunque, ode a Lina.

Addio a Lina Wertmuller, quando la regista posò la sua Stella sulla Walk of Fame di Hollywoodfoto da Quotidiani localiQuotidiani locali

Non serve un addio per giustificare l’unicità di una cinematografia che anche senza firma in calce si è sempre fatta riconoscere. Ai grandi non è mai servito farsi notare attraverso i titoli di coda: cogli la mano nei fondali e nelle narrazioni, nelle luci e nella essenza profonda dei gesti e delle intenzioni. Wertmüller si forma nel decennio generoso dei Pietrangeli, dei Zurlini, dei Bolognini, delle Cavani, quindi la difficoltà d’imporsi con la determinazione di un cinema atipico per gli anni non fu scontata, semmai il contrario. Lady Lina seppe con disinvoltura scardinare le regole con la cinepresa, arma potentissima se usata con intelligenza. D’altronde la giovane cineasta fece tesoro di certe frequentazioni di spessore: l’affiancare alla regia il sommo Federico in “La dolce vita” e in "8½" , l’esordio da segretaria di produzione in “…E Napoli canta”, oltre a un’esperienza teatrale con Giorgio De Lullo, uno che in fatto di rigore stilistico era un re.

Non solo: Wertmüller riuscì nell’impresa dove altri commediografi fallirono. Ovvero caricare il cinema italiano su un transatlantico ed esportarlo in America. Un critico del “New York” le spianò la strada facendola sbarcare con onori fino al tempo preclusi ad altri maestri popolari quali Monicelli, Risi e Scola.

E se una poco più che trentenne Lina iniziò a imprimere pellicola con una disamina sui neo-vitelloni del Sud con “I Basilischi”, film del ’63 prodotto dall’amico Tullio Kezich, che scrisse in onore del padre durante una visita al set di “Salvatore Giuliano” di Rosi — non proprio un successo esaltante per la sua staticità — poi colse l’attimo per un’improvvisa svolta con la decisione di chi sa il quando e soprattutto il come. “Mimì metallurgico ferito nell’onore” (1972) si rivelò essere una miccia che causò un’esplosione perfetta per ridestare un pubblico sopito dalle solite tematiche della commedia all’italiana.

Oltre alla tanta carne da cuocere sulla griglia della sceneggiatura, Lina puntò tutte le fiche su una coppia, Giannini/Melato, che si rivelò essere la migliore in quel quasi finale del Novecento. Una storia esasperata e frenetica che trasformerà un uomo da omertoso a mafioso, suo malgrado, e aggiornerà il popolo dei Settanta su tematiche poco frequentate come l’emancipazione, i sindacati, l’emigrazione, il tradimento. Uno squasso in sala che non rimase unico, la regista rincarò la dose con “Film d’amore e d’anarchia” (1973) con un sottotitolo interminabile che inaugurò la stagione delle etichette lunghe: “Ovvero, stamattina alle 10 in via dei Fiori nella nota casa di tolleranza”. Ed è ancora Giannini a raccontarcela, questa storia di un tale Tunin che negli anni Trenta vide morire un suo compagno anarchico e decise di far fuori il duce, facendosi coccolare - durante la preparazione del colpo - dalle femmine di un postribolo. E si può ben immaginare come il lessico spinto cominciò a serpeggiare per le sale.

Il filone è sdoganato e l’arrivo di “Travolti da un insolito destino nell'azzurro mare d’agosto”, coi due soliti magnifici (naufraghi) Giannini/Melato e con una varietà di spregiudicatezze che confermarono lo stile irredentista di Lina, fu meno sorprendente, ma comunque trionfale. E da lì a poco anche gli Usa s’inchineranno alla regina d’Italia con “Pasqualino settebellezze”, un inizio da commedia che sfocia nel dramma.

Instancabile Wertmüller, produsse altre otto pellicole prima del successo "Io speriamo che me la cavo” con Paolo Villaggio, fino all’ultimo ciak nel 2004, “Peperoni ripieni e pesci in faccia”.

Resta indelebile il suo televisivo “Giornalino di Gian Burrasca” (1964) fermata obbligata per tutte le generazioni dei Cinquanta, con una scatenata Pavone, idolo assoluto degli allora quieti teenager dell’epoca che iniziarono la prima rivoluzione casalinga inneggiando alla Pappa col pomodoro.




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