Quirinale: il tarlo Berlusconi
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Dopo 30 anni di vittorie, sconfitte e ritorni, il Cavaliere sfida le leggi della narrazione. Niente l’ha fermato, forte di un successo a cavallo della sfrontatezza
Le parallele convergono, eccome. Il loro punto d’incontro è nero, è lucido, è Silvio Berlusconi. È un centro di levità permanente che tutto attrae: la passione nazionale e la perplessità internazionale; l’ammirazione e il disprezzo; la più feroce satira e il più servo encomio; disponibilità da parte di chi dovrebbe avversarlo e ostilità da parte di chi gli dovrebbe essere affine.
Da quando è sceso in campo neppure il campo è più regolare: ha il piano inclinato a seconda degli interessi. Trent’anni di silvitudine e, parafrasando Garcia Marquez: «L’unica differenza attuale tra i liberali e i conservatori è che i liberali vanno» ad Arcore «alle cinque, i conservatori alle otto». I progressisti a mezzanotte, per non farsi vedere. C’è una generazione per la quale Berlusconi ha coperto l’intero arco della vita lavorativa, e non è finita. Considerando l’età, la cartella clinica, il curriculum, il casellario giudiziale: come è possibile? Nelle ghiacciaie digitali dei giornali si sono putrefatti i “coccodrilli”, le lacrime sono state sprecate come in quelle soap in cui protagonista, dato per spacciato, ritorna. E ritorna ancora. Il punto mancante, va da sé, è quello di non ritorno.
Sembrava fosse stato messo nel 2014, un giorno di maggio in cui entrò all’Istituto Sacra Famiglia di Cesano Boscone e si sedette tra gli anziani malati di Alzheimer. Era la sua attività di volontariato prescritta nell’affidamento ai servizi sociali. Ora, uno di quelli a cui prestò assistenza starà chiedendosi: «Che fine avrà fatto quel giovane gentile che raccontava barzellette?». Sta tentando di diventare presidente della Repubblica. È una barzelletta? Questa no.
Bisogna cominciare da qui per capire la fascinazione di un personaggio che sfida le leggi della narrazione, come un Buendia erede di se stesso. Spezzando una volta di più il filo della tradizione, si è autocandidato. «Un self made man, esempio per tutti gli italiani», come lo definiscono gli spasimanti seniores, può diventare un “self made president”? In un Paese normale, ma anche in Italia, l’ipotesi non avrebbe dovuto essere presa in considerazione. Invece, benché zoppa, balla da settimane. Tutti ci fanno il loro giro. Per accompagnarla o per sgambettarla, ma sempre al centro della pista rimane. Perfino il New York Times ne ha dato conto. Così: «A dispetto della salute cagionevole, delle sembianze ceree e della debolezza politica, tenta un ultimo colpo per finire alla grande e lavare via decenni di macchie. Ce ne sarà, da strofinare!».
Ha incassato appoggi a sorpresa, come quello del tedesco Manfred Weber, capogruppo del partito popolare al parlamento europeo: «Lasciategli dimostrare che è pronto a unire». Rifiuti netti: «Uno scherzo tragico» per il network France 24. Indifferenza, mai. Avrebbero potuto scrollare le spalle come per l’autocandidatura di Gianna Nannini, ma la sua è apparsa brutta e possibile. Perché proprio le volte in cui ha azzardato di più, alla discesa in campo, alla traversata del deserto, ha vinto. Chi in questi giorni non ha sentito la frase: «Guarda, solo per vedere la faccia dei magistrati con il suo ritratto nelle aule di giustizia». «Di quel giornalista che lo insulta». «Di Rosy Bindi».
Senza mai contare che il ritratto finirebbe anche nelle scuole e nel commissariato a cui telefonò per chiedere della nipote di Mubarak; che per giornalisti e politici Berlusconi al Quirinale sarebbe un dono del cielo. Dicono il contrario, ma finalmente polvere per i cannoni, inchiostro per i vignettisti, incarichi per gli adulatori, seguaci per i detrattori. Fuochi d’artificio sul Colle, altroché passare dal silenzio cocciuto di Mattarella a quello temuto di Draghi, da una soggezione all’altra: vuoi mettere il presidente oggetto, di tutto il possibile? Berlusconi coalizza e impera. Fa spostare le pedine solo sedendosi alla scacchiera: gli alfieri bianchi vanno col nero e viceversa. Liberali e fautori di legge e ordine si sono ritrovati sul versante sinistro pur di distinguersi da lui che occupava (o usurpava) l’altro. Ex di caselle all’estrema sinistra sono scivolati verso di lui attratti dal miraggio di un’anarchia creativa e in fondo sovversiva.
Alla vigilia del voto per il Quirinale ancora coalizza e sposta, all’insegna del «chiunque ma non lui» capace di legittimare la sua ombra, quella di Craxi, il suo cactus o il sempreverde mito del “male minore” con cui si avvelena la vita pubblica un po’ per volta invece che in un colpo solo. Riesce difficile condividere una definizione nella pagina pubblicata dai “Forza Seniores”. Anche più d’una, ma questa in particolare: «Amico di tutti, nemico di nessuno». Però chi lo avversa o non lo prende sul serio dovrebbe spiegare: perché quando Sgarbi ve lo passava al telefono non avete riagganciato? Perché quando ha fatto la battuta sul “partito del bunga bunga” avete sorriso? E si arriva alla domanda finale, quella del raddoppio: perché dopo trent’anni non è uscito di scena?
Che problema abbiamo con la rimozione, l’oblio, il superamento di certe stagioni del nostro scontento e della sua personale felicità, elargita a pochi come una mancia? Tre possibili indizi per questo delitto di illesa maestà. Il primo: che la biografia della nazione alla fine del secolo scorso abbia schiarito i toni, virando verso la tragicommedia. Morettianamente: se ci eravamo meritati Alberto Sordi, ci siamo strameritati Silvio Berlusconi. Il nostro protagonista non è mai James Stewart o Henry Fonda. Non l’eroe incorruttibile o l’uomo comune illuminato da un raggio di virtù: quello semmai ci piace postumo. Ci riconosciamo invece nel tipo di successo a cavallo della sfrontatezza, che ammanta di coraggio la sua impresa truccata. Un cacciatore di scoiattoli, armato fino ai denti.
Il secondo: banalmente, “segui il denaro”. Nessun altro politico ha potuto basare il proprio potere su una simile base economica e sulle conseguenze dell’amore a pagamento. Terzo, ma non ultimo: una tendenza collettiva a subire la storia, guardandola mentre qualcuno, da fuori o dall’alto, la scrive, anche sulla nostra pelle.