Morire per uno stage: l’aziendalizzazione precoce e quel sistema di alternanza-scuola lavoro che va rivisto
Giova ricordare che l’inserimento in azienda di un giovane come Lorenzo, che stava ancora completando il suo percorso formativo, dovrebbe richiedere un surpuls di attenzione per i profili della prevenzione degli infortuni ed un affiancamento costante ed attento da parte di lavoratori con esperienza
*Ordinaria di Diritto del lavoro nell’Università di Trieste
UDINE. Era solo questione di tempo. Da quando – e sono già molti anni, purtroppo – l’ideologia di una necessaria aziendalizzazione precoce dei giovanissimi è diventata un dogma quasi indiscutibile era facile preconizzare che prima o poi ci saremmo trovati a piangere la vita spezzata di un giovane “in alternanza” scuola-lavoro. Visto il quadro generale della sicurezza sul lavoro nel nostro Paese, non si trattava di una difficile profezia. Ma Cassandra, lo sappiamo, non viene mai ascoltata, sebbene i segnali d’allarme non fossero mancati, anche nella nostra Regione: diversi lettori ricorderanno il caso del sedicenne che nel 2018 aveva subito, sempre durante uno stage in azienda legato ad un percorso di alternanza, la semi-amputazione di una mano.
Oggi ci troviamo ad assistere attoniti allo strazio della famiglia di Lorenzo, un ragazzo di soli 18 anni, allievo di un istituto professionale di Udine e morto – colpito da una putrella durante alcune operazioni su una struttura metallica – in un’azienda di Lauzacco nel suo ultimo giorno di un tirocinio scuola-lavoro.
Non voglio entrare qui nel caso specifico, se non per esprimere ai familiari tutta la mia partecipazione al loro immenso dolore. Le indagini della Procura di Udine sulla dinamica dei fatti faranno il loro corso ed è lecito attendersi che gli eventuali responsabili, se verranno individuate delle carenze nei sistemi di sicurezza, vengano puniti con la necessaria severità.
In sede di inaugurazione dell’anno giudiziario, il Presidente della Corte di Cassazione non ha mancato di sottolineare quanto sia inaccettabile il numero degli infortuni e delle morti sul lavoro nel nostro Paese e, con riguardo alla nostra Regione, sempre ieri questo giornale ricordava come in un anno le morti sul lavoro in Friuli Venezia Giulia siano vertiginosamente aumentate: questa orrenda contabilità ci segnala che dai 16 morti del 2020 siamo passati ai 27 del 2021. Una strage, dunque, che non solo continua, ma aumenta.
Se questo è il contesto, la terribile vicenda di cronaca impone alcune ulteriori riflessioni proprio sul tema della cosiddetta “alternanza scuola-lavoro”, che da poco ha cambiato nome ed oggi si chiama “Percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento” (“PCTO”, con uno dei molti acronimi che tanto piacciono alla burocrazia ministeriale). Non siamo in pochi infatti a ritenere che sia necessario un radicale ripensamento di questo strumento ed anche in seno ai sindacati molte sono le voci critiche, ieri riportate ampiamente su queste stesse pagine.
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Dalla legge Moratti del 2003 – che ha sancito il principio per cui l’alternanza entrava nel curriculum didattico dell’Istruzione secondaria di II grado – passando per il d.lgs. n. 77 del 2005 (che ne ha disposto l’obbligatorietà), fino agli interventi più recenti con la legge n. 107 del 2015 e alla previsione della necessaria esposizione in sede di esame di maturità, a partire dall’anno scolastico 2018-2019, di tali esperienze da parte degli studenti e delle studentesse, questo istituto è stato oggetto di ripetuta attenzione da parte del legislatore, con interventi susseguitisi nel tempo e diretti a definirne caratteristiche, monte ore (differenziato a seconda dei diversi percorsi di studi – liceali, tecnici, professionali) e modalità.
Al centro del sistema – in una logica che si afferma di contrasto al rischio di disoccupazione giovanile, particolarmente rilevante (anche se con forti differenze territoriali) nel nostro Paese – sta l’idea che sia necessario per gli studenti acquisire “competenze” sul campo, che appaiono disegnate come funzionali alle richieste del mercato del lavoro e del sistema produttivo. Detto in altri termini: si sottende che i giovani non trovino lavoro perché non sono sufficientemente formati per le esigenze delle imprese; la soluzione, quindi, viene ricercata in una precoce aziendalizzazione, in un inserimento degli studenti, per dei brevi periodi, nelle aziende, con l’obiettivo di consentire loro di acquisire le “competenze” di cui sopra. Il rischio tuttavia è che queste attività possano tradursi di fatto in lavoro non retribuito (i giovani “stagisti” non sono certo lavoratori dipendenti, né godono dei diritti di questi ultimi) e con livelli di sicurezza non sempre adeguati.
A questo proposito, giova ricordare che l’inserimento in azienda di un giovane che stia ancora completando il suo percorso formativo, e dunque per definizione inesperto, dovrebbe richiedere un surpuls di attenzione per i profili della prevenzione degli infortuni ed un affiancamento costante ed attento da parte di lavoratori che abbiano la necessaria esperienza con riguardo a tutti i profili inerenti alla sicurezza sul lavoro. Questo avviene sempre? Inoltre, anche il controllo puntuale e continuo da parte delle scuole sulla qualità di questi percorsi può essere non sempre agevole, visti i grandi numeri di ragazzi che ogni istituto si trova ogni anno obbligato a dover avviare verso questi percorsi.
I tutor – sia scolastici che aziendali – sono davvero messi in grado di svolgere adeguatamente il loro compito di verifica e di controllo? Queste sono solo alcune delle domande che è lecito porsi, alle quali mi si permetta di aggiungere un’ultima constatazione.
I dati delle verifiche annuali sull’apprendimento svolte all’interno del sistema scolastico italiano continuano a restituirci una fotografia poco confortante, sebbene con importanti divari territoriali; l’Istat la scorsa estate ha segnalato un peggioramento nelle competenze in italiano e matematica degli studenti dell’ultimo anno delle scuole secondarie di primo e secondo grado; inoltre continua ad essere rilevante la dispersione scolastica, non solo nelle aree del Mezzogiorno.
Se questi sono i dati, forse più che ad un’aziendalizzazione precoce è il caso di mettere davvero mano – al di là di tante parole – ad un radicale potenziamento del nostro sistema scolastico, in termini di strutture, risorse economiche, aumento e qualità del personale. Più che entrare precocemente in azienda, ai giovani italiani serve rimanere più a lungo – quando si deciderà di elevare l’obbligo di istruzione a 18 anni? – in una scuola di qualità che sia messa pienamente in grado di adempiere alla propria preziosa ed irrinunciabile funzione, che è in primo luogo quella di fornire ed affinare strumenti per la comprensione del mondo (e, quindi, anche per essere pienamente consapevoli dei propri diritti), coltivando allo stesso tempo lo spirito critico.
Poi ci sarà l’ingresso in azienda, per il quale, peraltro, il legislatore ha già da tempo previsto e regolato uno strumento diretto a coniugare in modo equilibrato lavoro e formazione: si chiama contratto di apprendistato.
Ed è un contratto di lavoro a tempo indeterminato, che offre ai giovani tutte le garanzie di un “vero” impiego e, parallelamente, con un sistema di incentivi normativi ed economici, premia lo sforzo formativo delle aziende. Forse sarebbe il caso di decidere, finalmente, di andare in questa direzione.