Milo De Angelis riceve a Trieste il Premio Saba: «È una città mutevole in difficile equilibrio»
TRIESTE. «Mi piace il fatto che gli scrittori triestini di ieri e di oggi non si siano mai riuniti in gruppi e abbiano sempre coltivato un’esperienza solitaria. Solitaria e instabile. C’è qualcosa di Trieste che vive in bilico, rischiosamente sospesa, cerca un difficile equilibrio tra il mondo asburgico e quello orientale, tra l’interiorità del primo e l’apertura del secondo, tra il Carso e il mare».
A dirlo e uno dei maestri della poesia contemporanea, Milo De Angelis, a Trieste per ricevere il Premio Umberto Saba Poesia, promosso dal Comune di Trieste, dalla Regione in collaborazione con Lets Letteratura e a cura della Fondazione Pordenonelegge.
Nella Giornata mondiale della poesia, domani, De Angelis riceverà il premio durante un incontro pubblico al Politeama Rossetti (ore 11), per la sua ultima opera “Linea intera, linea spezzata” (Lo Specchio-Mondadori). Autore milanesissimo, eppure attratto dalla poliedricità di Trieste, città imprendibile: «Trieste è mutevole come il suo cielo e il suo vento – dice –. Mi ricorda la protagonista di un magico romanzo di Stelio Mattioni, “Il richiamo di Alma”, dove c’è una donna che all’inizio appare bianchissima ai piedi di una scalinata e poi entra in una metamorfosi perenne, cambia espressione in ogni fotografia, diventa imprendibile ed esercita continuamente il suo richiamo, che non potrà mai trovare una risposta duratura. Due cari amici che abitavano a Roma, Fabio Doplicher e Mauro Covacich, mi parlavano spesso di questo profondo richiamo triestino, inesauribile e inesaudibile».
“Linea intera, linea spezzata” vince il Premio Saba, un titolo singolare. Con cosa ha a che fare?
«Il titolo viene dal “Libro dei mutamenti (I Ching)” dell’antica sapienza cinese, dove gli esagrammi che consultiamo sono formati appunto da linee intere e linee spezzate. Ma il riferimento è anche alle tre Parche del mito greco. Mi ha sempre colpito la semplicità visiva di questa immagine, di questo segmento che noi percorriamo come un ponte sospeso sull’abisso in cui, una volta concluso il nostro cammino, siamo destinati a precipitare. E in particolare l’ultima sezione del libro, “Aurora con rasoio”, è dedicata a tutti coloro che decidono, qualunque sia la ragione, di troncare la linea di propria mano, anticipando il gesto di Atropo».
La sua prima raccolta in versi risale al 1976, com’è cambiata la società poetica?
«Il mondo della poesia ha una caratteristica ben precisa: da una parte muta senza tregua, seguendo lo scorrere del tempo, dall’altra custodisce alcuni archetipi che permangono immutabili nella diversità degli anni e lanciano una sfida vera e propria all’idea di mutamento e di progresso. La poesia insomma fa sentire più di ogni altro genere letterario la sua fedeltà alla Tradizione, a quell’eredità metrica, stilistica e spirituale per cui oggi possiamo sentire contemporaneo un sonetto di Francesco Petrarca o un madrigale di Torquato Tasso. Negli anni Settanta ho conosciuto al massimo tre o quattro poeti degni di questo nome, poeti per i quali scrivere era un destino invalicabile, qualcosa che irrompeva violento nel sangue e scorreva in tutto il nostro essere. E tre o quattro ne conosco oggi».
E la poesia oggi di che tipo di “resistenza” fa parte?
«Resistenza? Toglierei la prima lettera a questa parola e lascerei intatta e potente la nuda verità dell’esistenza. “Resistere” infatti riguarda qualcosa di esterno a cui opporsi – ed è giusto farlo – ma “esistere” significa abitare il cuore dell’umano, scavare senza tregua all’interno di noi stessi, compiere il viaggio decisivo verso la nostra origine».
Conosce Trieste?
«Non esiste città al mondo che io voglia conoscere come Trieste, appena intravista ai tempi di Basaglia e più tardi per qualche sporadica lettura in uno dei suoi celebri Caffè. E sicuramente lo farò, rimanendo dopo la cerimonia del Premio per tutto il tempo necessario, seguendo le tracce non solo di Saba e di Svevo – che comunque rimangono magistrali - ma anche di Slataper, Giotti, Stuparich, Quarantotti Gambini, Tomizza, Del Giudice, Mattioni, Rosso, Cergoly, Grisancich, Magris, Bobi Bazlen e l’infinita schiera di letterati che hanno abitato questa poetica città».
Sta per uscire una sua traduzione di Lucrezio, autore del contrasto come Leopardi. Qual è il tratto più singolare dell’autore latino?
«Lei dice bene: c’è in Lucrezio un contrasto radicale, al confine della follia, tra il destino mortale dell’anima e l’immensa potenza delle sue visioni cosmiche. Nessuno ha vissuto come lui il senso del nulla e insieme il senso dell’infinito. E nessuno come lui ci ha fatto vivere l’enormità degli spazi celesti, l’urlo dei fulmini e degli uragani, il volo delle nuvole sopra i volti attoniti di tutti noi che le ammiriamo dall’alto di una montagna».
Ha insegnato molto in carcere, qual è stata la risposta?
«Di tutta la mia carriera scolastica, i quindici anni trascorsi in carcere sono stati i più belli ed entusiasmanti. Non ho mai conosciuto alunni così seri, riconoscenti e persino devoti all’insegnamento della poesia. Ci scriviamo spesso (rigorosamente a mano, come una volta) e quando hanno un permesso, vengono a casa a trovarmi per proseguire di persona il nostro antico discorso, mai interrotto». —