Nove anni di carcere a Navalny: “Io non cedo, la Russia rischia”
«Il numero nove non significa nulla», scrive sul suo Instagram Yulia Navalnaya, «Nove è soltanto un numero, non ha importanza, è solo la targhetta affissa alla mia branda», replica suo marito da dietro le sbarre. Alexey Navalny reagisce alla condanna con il solito indistruttibile umorismo, e promette che non si limiterà «ad aspettare» la fine della prigionia, nel marzo del 2031, ma continuerà a lavorare per abbattere il regime di Vladimir Putin. D’ora in poi sarà però molto più difficile: dopo due sentenze congiunte, per «truffa» ai danni dei finanziatori della sua Fondazione anticorruzione, e per offesa alla corte in un altro processo precedente, il leader dell’opposizione russa diventa un «criminale recidivo», e viene condannato a un carcere «severo», dove non potrà comunicare facilmente con la famiglia e gli avvocati come ha fatto finora dalla prigione a “regime comune” di Vladimir. È evidente che il Cremlino vorrebbe buttare via la chiave - la nuova sentenza impedisce a Navalny di fare campagna alle elezioni presidenziali sia del 2024 che nel 2030, mentre la condanna che sta attualmente scontando l’avrebbe visto tornare in libertà l’anno prossimo – ma soprattutto vuole silenziarlo, proprio mentre i suoi collaboratori sono in testa al movimento contro la guerra in Ucraina.
Ed è stata proprio la guerra a oscurare un processo farsa, che si tiene direttamente nel carcere, con i giornalisti a seguire il dibattimento su una tv a circuito chiuso che si guasta ogni volta che parla l’imputato. Un processo dove due testimoni dell’accusa si sono rimangiati la deposizione in aula, dichiarando di non sentirsi anzi minimamente «truffati» da Navalny. Un processo dove decine di testimoni della difesa hanno cercato di salvare Navalny e la sua fondazione – messa nel frattempo fuorilegge come «estremista» – con deposizioni come quelle della celebre giornalista Evgeniya Albatz, che ha dichiarato i soldi che aveva dato per finanziare le indagini anticorruzione dell’oppositore «il miglior investimento della mia vita». Una condanna scontata – talmente scontata che l’oppositore aveva chiesto alla moglie Yulia di non venire a sentirla in aula, ma di volare in Germania da figlio Zakhar per fargli coraggio – decisa ancora prima di iniziare il processo da quel «gruppo di nonni impazziti che ci governa», come li ha definiti Navalny nel suo ultimo discorso.
Navalny promette che non si fermerà, e devolve il premio Sakharov del Parlamento europeo alla nuova versione internazionale della sua fondazione. E l’ultimo regalo dei navalniani il giorno prima della sentenza, la devastante video inchiesta sul gigantesco “yacht di Putin” ormeggiato a Carrara, dimostra che le cartucce da sparare ci sono. Le sanzioni contro gli oligarchi e i funzionari del Cremlino, le magioni e gli yacht sequestrati in tutto il mondo, dalla Liguria a Londra, sono tutti colpi messi a segno da Navalny, che con le sue inchieste ha svelato la corruzione dei vertici russi con nomi, cognomi, indirizzi e numeri di conto. La sua idea della lotta alla corruzione come parte integrante della lotta alla democrazia - del resto, già nel 2014, dopo l’annessione della Crimea, la lista degli oligarchi da sanzionare venne stilata in Occidente anche grazie alle dritte di Navalny – ora diventa una delle armi internazionali contro il regime di Putin. Dalla sua prigione, il leader dell’opposizione russa però incalza, e per la prima volta parla del rischio di una «distruzione del Paese» di una Russia che collassa insieme al regime che l’ha portata in guerra.
Potrebbero essere le sue ultime parole, per tanto tempo. Da un carcere severo non potrà più consegnare ai suoi avvocati i suoi post per Instagram, e dirigere la sua rete. Ieri, subito dopo la sentenza, i difensori di Navalny, Olga Mikhailova e Vadim Kobzev, sono stati prelevati dalla polizia mentre parlavano con i giornalisti, in un chiaro segnale di intimidazione. Le visite regolari degli avvocati e della moglie al carcere di Vladimir erano una fragile garanzia che il regime non avrebbe cercato di distruggere il dissidente celebre in tutto il mondo, ma dopo aver lanciato la guerra il Cremlino ha anche buttato alle ortiche qualunque remora residua al rispetto dei diritti e all’opinione pubblica internazionale.
La repressione aumenta ogni giorno: ieri a Mosca è avvenuto il primo arresto per il nuovo reato di «discredito delle forze armate»: un tecnico della polizia di Mosca rischia fino a 10 anni di carcere per aver diffuso informazioni sulla guerra in Ucraina. E il prossimo nella lista è il famoso giornalista Aleksandr Nevzorov, incriminato per aver raccontato sui suoi canali YouTube e Telegram il massacro di Mariupol. E ieri è stato respinto l’ultimo ricorso per almeno sospendere la liquidazione di Memorial: la più antica ong di diritti umani russa si era appellata al tribunale europeo di Strasburgo, ma la Russia è uscita dal Consiglio d’Europa e non si sente più vincolata dalle regole europee.