Guerra Russia-Ucraina, l’esercito dei legionari, fra ideali di libertà e orgoglio nazionalista
Pochi giorni dopo l’inizio dell’invasione russa il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha annunciato l’istituzione di una legione internazionale di volontari, ha stilato una procedura per agevolare l’ingresso dei combattenti stranieri attraverso le ambasciate ucraine nel mondo e inviato un messaggio chiaro: armarsi al nostro fianco sarà la prova del sostegno all’Ucraina sotto attacco, «chi combatte oggi per l’Ucraina - è stato il messaggio di Kiev - difende la libertà di un popolo e del suo governo democraticamente eletto da un esercito invasore». La chiamata alle armi in una Legione straniera per la difesa della libertà ha evocato in molti l’entusiasmo di chi si recò a combattere il fascismo durante la guerra civile spagnola. In poche settimane, stando ai dati diffusi dal Ministro degli Esteri di Kiev Dmytro Kuleba, avrebbero fatto richiesta di unirsi alle forze armate ventimila volontari in arrivo da 52 Paesi. Sono cittadini di ritorno, ucraini della diaspora, ma soprattutto volontari in arrivo da Stati Uniti, Canada, Georgia, Svezia, Francia, Belgio, Bielorussia. Un’adesione massiccia, rafforzata dall’approvazione di alcuni leader di governo che hanno apertamente sostenuto i loro cittadini nella decisione di combattere contro le truppe di Putin in Ucraina. Politici come la ministra degli Esteri britannica Liz Truss che ha espresso sostegno a chi deciderà di combattere «per la libertà e la democrazia non solo per l’Ucraina ma per l’intera Europa», come Chrystia Freeland, la ministra delle finanze canadese, che ha definito la lotta per l’Ucraina una lotta tra libertà e tirannia, paragonandola alla battaglia di Gettysburg nella guerra civile degli Stati Uniti, e alle battaglie contro il nazismo nella seconda guerra mondiale, e come il primo ministro danese Mette Frederiksen, che ha detto: «È una scelta che chiunque può fare, vale per gli ucraini che vivono in Danimarca e vogliono tornare a difendere il loro Paese, ma anche per altri che pensano di poter contribuire direttamente al conflitto». Tanti i leader a sostegno della Legione internazionale, che hanno visto nelle richieste di Zelensky una disperata richiesta di supporto, ma anche alcuni dubbi, preoccupazioni su cosa può significare per la sicurezza globale una rinnovata ondata di combattenti stranieri in movimento.
Timori come quelli espressi dal Primo ministro australiano Scott Morrison che ha sottolineato «l’incerta legalità delle azioni di chi combatte nella legione internazionale». Morrison centra un punto, perché la storia recente insegna che, per quanto possa apparire nobile il sostegno all’esercito di un Paese invaso e sotto attacco, la definizione giuridica e le conseguenze della presenza di combattenti stranieri in un conflitto, rischiano di complicare la guerra anziché contribuire a risolverla velocemente. Questi timori hanno prove storiche e le hanno in Ucraina, dove la guerra nel Donbass ha già registrato il più grande afflusso di combattenti stranieri di qualsiasi conflitto nella sfera post-sovietica.
Dal 2014, sarebbero oltre 17.000 i combattenti provenienti da 55 Paesi che hanno combattuto lì sia dalla parte ucraina che da quella russa.
È passato un mese dall'inizio della guerra in Ucraina, ma i numeri di volontari sono già così significativi da rendere necessaria un'analisi di quello che potrebbe avvenire sul terreno se le battaglie si intensificassero e dei rischi che i foreign fighters rappresenteranno una volta tornati nei paesi di origine. Come sottolinea Colin Clarke, direttore di ricerca presso il Soufan Group a New York «il fenomeno dei foreign fighters non è nuovo. Basti pensare ai conflitti recenti che hanno mobilitato migliaia di persone: i due conflitti afghani, la Bosnia, la Cecenia e l’Iraq».
Clarke elenca gli effetti indiretti citando esempi di guerre lunghe e in cui la Russia ha avuto e ha un ruolo da protagonista: «Parte della nostra esperienza di ricercatori riguarda la rivolta siriana contro Bashar al-Assad e l’emergere dello Stato islamico. Sebbene il reclutamento dell’Isis sia molto diverso dall’appello dell’Ucraina per chiedere aiuto contro Putin, l’enorme volume di reclute - quasi 40.000 persone hanno viaggiato da più di 110 Paesi per unirsi alla guerra - ha portato in netto rilievo i rischi dei combattenti stranieri». Le ricadute sono di varia natura, perché se è vero che a partire sono molti veterani, è altrettanto vero che sarà più complicato gestire i civili che partono con scarsa preparazione e ancor minore consapevolezza delle leggi della guerra. Civili che rischiano più degli altri di essere esposti al reclutamento da parte di gruppi estremisti. In secondo luogo la presenza di combattenti stranieri può, anziché ridurre, ampliare la durata dei conflitti e la loro letalità, perché è evidente che quanti più soldati ci sono sul campo di un conflitto, tante più agende rischiano di imporsi e soprattutto di contrapporsi, come scrive ancora Clarke «in Cecenia, l’afflusso di combattenti stranieri jihadisti ha trasformato quella che era una causa nazionalista in una causa religiosa, consegnando così al Cremlino una facile vittoria propagandistica. Allo stesso modo Assad ha usato la presenza di combattenti stranieri in Siria per etichettare tutta l’opposizione del regime come terroristi jihadisti».
È proprio guardando alla Siria che dovremmo raccogliere lezioni illuminanti: secondo il Wall Street Journal la Russia avrebbe già spostato combattenti siriani in Ucraina. Era facilmente prevedibile, dato lo stallo della situazione e le difficoltà delle truppe russe. D’altronde Damasco è uno dei pochi alleati rimasti al Cremlino e Assad deve molti favori a Putin: l’esito della guerra di Siria dipende in larga parte dall’intervento russo, senza il quale il regime di Damasco sarebbe probabilmente stato rovesciato alcuni anni fa. Siriani in arrivo, dunque, e su entrambi i lati del fronte, come accaduto già in Libia, dove sono stati reclutati sia dalla Russia che dalla Turchia. Furono i mercenari russi della brigata Wagner, nel caso libico, a facilitare l’arrivo dei siriani filo-Damasco a fianco del generale Haftar, mentre la Turchia reclutò combattenti tra i ribelli siriani per sostenere il governo di base a Tripoli.
Oggi rischia di ripresentarsi lo stesso scenario sul fronte ucraino.
La grande domanda, soprattutto per i volontari occidentali che si stanno unendo alle truppe di Kiev, riguarda il futuro, soprattutto quello del Paese invaso che oggi reclama con forza l’ausilio di volontari.
Dall’annuncio della creazione della Legione Internazionale, gli esperti hanno già notato che l’idea di unirsi alle forze armate ucraine (Uaf) ha preso piede negli spazi virtuali di estrema destra.
I leader delle milizie di destra in Finlandia, Ucraina e Francia hanno pubblicato dichiarazioni in cui esortano i loro seguaci a mobilitarsi per la causa e hanno prodotto propaganda di reclutamento.
Il gruppo privato Site Intelligence che monitora i gruppi estremisti ha studiato queste pubblicazioni, e la sua direttrice Sara Katz ha dichiarato al New York Times che «numerosi gruppi nazionalisti bianchi e neonazisti di estrema destra in Europa e Nord America hanno già espresso un’ondata di sostegno all’Ucraina, anche cercando di unirsi alle unità paramilitari nella battaglia contro la Russia... con la motivazione primaria di acquisire addestramento al combattimento ed essere anche ideologicamente guidato». La studiosa Sara Meger, che ha analizzato gli effetti dei combattenti stranieri in Ucraina dopo il 2014, ha scoperto che la maggior parte di coloro che si sono uniti al conflitto negli otto anni passati, sono giovani, maschi, con precedenti esperienze nelle forze armate, convinti che il risultato in Ucraina avrebbe probabilmente avuto ripercussioni domino in tutta Europa, «per gli uomini di destra, difendere l’Ucraina da un’invasione russa era un passo necessario per difendere i valori occidentali», ha scritto Meger. La guerra di oggi è un’estensione della guerra in Donbass, e il pericolo è che attraverso la creazione della Legione, l’Ucraina possa diventare una porta di estremismi e individui inclini alla radicalizzazione che rischiano in futuro di poter estendere la loro rete militare.
Scenari che aprono a un duplice problema: come controllare questi combattenti in Ucraina, quando i combattimenti cesseranno e come controllarne l’influenza quando torneranno a casa. L’Occidente ha infatti già dimostrato nelle recenti guerre mediorientali di non disporre di un sistema di controllo per i combattenti che tornano a casa. Rimane non chiara la definizione legale degli stranieri che viaggiano per unirsi in combattimento con altri eserciti. Di fronte ad ambiguità non sciolte, rischiamo di trovarci a fare i conti, in pochi anni, con una generazione di combattenti radicalizzati e con esperienza di combattimento. E se è vero come è vero, che la causa ucraina - un Paese sovrano invaso e bombardato da un mese - sia una causa che merita il sostegno internazionale, è altrettanto vero che i governi che la sostengono devono essere lucidi nel valutare gli effetti di lungo termine legati alla presenza di combattenti estremisti che rischiano di accrescere la minaccia di radicalizzazione del futuro.