Un secolo fa nasceva Ugo Tognazzi, l’attore che sdoganò il diritto alla burla
Dagli esordi in teatro alla televisione e, infine, al cinema che lo consacrò con gli scherzi di Amici miei
Ugocentrico, talento puro — nessuno ha mai capito quando studiasse i copioni — godereccio ai massimi, l’unico comico ad aver sdoganato il “diritto alla cazzata”.
Capo delle Br per qualche giorno, la burla delle burle, per sempre il conte Raffaello Mascetti di “Amici miei”, per sempre Ugo Tognazzi, il cremonese che faceva il contabile alla Negroni, ma fu licenziato dal ragionier Balzaretti per inefficienza.
L’impiegato dormiva di frequente durante le ore di lavoro appoggiando il mento alla gomma della matita, facendo credere di essere efficiente. Il trucco non durò molto. Fortuna sua.
Il padre Gildo, in una gustosa intervista nella Tv dei Cinquanta, confessò che il figlio era un ragazzo onesto e tutt’altro che bugiardo, a parte quando saliva sul palcoscenico. Poi toccò a Ugo.
«Mio papà ha ragione, ma se c’è uno che non avrebbe dovuto fare questo mestiere, quello sono proprio io». Uno sketch in netto anticipo sui reality a venire.
Siamo in modalità centenario. Uno dei grandi artisti del Novecento nasce nel 1922, il 23 marzo. Il suo amico Gassman lo seguirà il primo settembre. Loro, fra l’altro, sono i magnifici due dell’ultimo episodio de “I mostri” (1963).
Ugo è Enea, organizzatore di incontri pugilistici, che invoglierà il suonato Artemio a tornare a combattere. Per quattro soldi il poveraccio resterà menomato per sempre.
Cento e quarantanove film, vari tentativi di rivista che, come si diceva, gli costarono il posto di lavoro, e un inizio travolgente in televisione. Rubando le battute a Dapporto Tognazzi debuttò nei teatrini cremonesi e il pubblico, che già le conosceva, glielo urlava chiaro dalla platea: «Questa è vecchia!!!».
Nessuno, però, obiettò il suo carisma e il modo comico di porsi e fu un attimo ritrovarsi sotto la scalinata della Wanda Osiris, un’aspirazione giovanile esaudita.
La consacrazione arrivò nel 1981 a Cannes, migliore attore per “La tragedia di un uomo ridicolo” di Bernardo Bertolucci, dopo trentuno anni di cinema, decisamente tardi. Quella del pubblico arrivò invece prestissimo, anzi subito, con “Un Due Tre”, varietà della Rai cucito addosso a Tognazzi-Vianello, cavalli indomabili in un recinto guardato a vista dai severi censori.
Ugo e Raimondo duellavano a meraviglia nella più provocante realtà surreale, tant’è che gli autori temevano le dirette più di un improvviso tsunami.
Quei due, spesso, scivolavano volentieri nel fuori copione finché, ecco, la premiata e amatissima ditta fu sgambettata dai piani alti di viale Mazzini per un imperdonabile inciampo: aver scimmiottato la caduta dalla sedia del presidente Gronchi alla prima della Scala accanto al collega De Gaulle.
Sordi incontrò Fellini, Mastroianni lavorava con Visconti, Gassman incrociò Monicelli, Tognazzi, invece, inciampò su un lanciato Walter Chiari che gli soffiò la parte de “L’inafferrabile 12” e dovette pure pagare una penale di un milione per aver abbandonato la tournée a teatro.
Il cinematografo lo accolse con benevolenza, il chiasso televisivo facilitò l’ingresso e Ugo girò trenta pellicole in dieci anni, tredici soltanto nel 1959. Ma i film decisivi arriveranno agli inizi dei Sessanta, a cominciare da “Il federale” di Luciano Salce.
Tanto i suoi personaggi, alcuni di loro, erano problematici e introversi - il Berlingheri della “Voglia matta”, l’Andrea de "Il magnifico cornuto” e l’Oscar Pettini di “Sissignore” - quanto il Tognazzi della vita vera amava il caos, cucinare cene pantagrueliche per gli amici e organizzare il torneo di tennis del Colapasta d’oro, giorni di racchettate e mangiate senza risparmio.
Quattro figli, due compagne e una moglie, l’attrice Franca Battoia, le reunion familiari nella villa di Velletri, eccessi moderati per un attore amato da Ferreri, Monicelli, Risi, e persino da Pasolini con quale girò “Porcile” e che per tre volte passò dietro la cinepresa (il più popolare resta “Il fischio al naso”) osando molto col “Vizietto”, nel 1978. Chiunque gli volesse bene lo sconsigliò di farlo: i film coi gay non incassano.
Tre anni prima fu girato il simbolo cinematografico italiano dei Settanta: “Amici miei”, un film di Pietro Germi, che morì prima di cominciarlo e la mano passò a Monicelli. Tognazzi, in realtà, avrebbe dovuto interpretare il Perozzi, per il Mascetti si pensò a Mastroianni, che rifiutò, e poi a Vianello, idem.
Ugo si ritrovò a cambiare casacca prima di scendere il campo, una specie di «Supercazzola come se fosse Antani». Il destino gli ritornò lo sgarbo di Walter Chiari. E un ruolo eterno.