Justin H.Min ha letto ultimamente molti libri di auto-aiuto. «Ho appena finito Atomic Habits di James Clear», racconta, mentre passeggiamo per le caliginose e assolate strade di Los Feliz, un quartiere della vasta area di Hollywood a Los Angeles. Min è un lettore appassionato che da bambino ha frequentato un corso di lettura veloce e oggi mi parla con entusiasmo della scrittrice Lydia Davis. Ha voluto condurmi nella sua libreria preferita dove, a un certo punto, ha tessuto le lodi dell’ultimo romanzo di Kazuo Ishiguro. Il pallino dell’auto-aiuto è una smania nata di recente. «Consideravo questo genere di pubblicazioni un po’ borderline per me», ammette. «Ma per qualche strano motivo ora mi piacciono». La ragione può essere facilmente dedotta: Min ha 33 anni e vive l’ebrezza dell’inizio di una carriera da star che sta rivoluzionando la percezione del suo posto nel mondo. Si è guadagnato i favori del pubblico nel ruolo di protagonista del film After Yang, un dramma fantascientifico della casa di produzione A24, e quest’estate uscirà la terza stagione della serie tv The Umbrella Academy, una fortunata combinazione tra X-Men e I Tenenbaum targata Netflix. Le azioni di Min sono adesso alle stelle grazie a due tipologie di fan molto attivi ed estremamente fedeli: i fanatici dei film su Twitter e i nerd dei fumetti. È un momento magico e pazzesco per essere Justin H. Min.

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La popolarità di Min non è cresciuta secondo i tradizionali canoni di Hollywood. In ogni caso, lui ha ormai capito di essere diventato un personaggio famoso e i suoi due milioni di follower su Instagram ne sono la prova. Eppure, tra un lockdown e l’altro, ha passato la maggior parte dell’ultimo biennio in uno stato di isolamento. L’anno scorso, a causa dei rigidi protocolli Covid-19, l’intero cast di The Umbrella  Academy ha vissuto “sotto sequestro” a Toronto per otto mesi. Ci sono stati, comunque, diversi segnali del suo crescente successo. Lo scorso marzo, nel giorno del suo compleanno, Min si è svegliato e ha scoperto che un gruppo di fan sudcoreani aveva fatto a Seoul una colletta per dedicargli un cartellone pubblicitario. «C’era scritto: “Buon compleanno Justin” con un’enorme foto... di me!», dice con una bella risata di compiacimento.

E poi c’è la piccola questione dell’identità asiatica. Justin H. Min è sempre stato orgogliosamente un coreano americano di seconda generazione e la H puntata sta per Hong-Kee, il suo nome in coreano. Man mano che Hollywood ha cambiato mentalità, gli attori asiatici hanno avuto ruoli sempre più rilevanti e questa nuova disponibilità ha creato abbondanza di lavoro. La carriera di Min è entrata in fase di decollo, anche se dopo l’inizio della pandemia c’è stata una terrificante eruzione di sentimento anti-asiatico. Una situazione schizofrenica che, all’improvviso, lo ha costretto a fare i conti con la propria identità etnica e una maggiore attenzione nella scelta dei personaggi da interpretare.

In tal senso, i libri di auto-aiuto possono essergli utili. «Dopo otto o nove anni in cui ho vissuto in modalità di sopravvivenza, concentrato solo a ottenere il prossimo lavoro, posso rallentare», spiega Min. «Per la prima volta nella mia vita non devo spingere sull’acceleratore e mi è possibile crescere in modo più completo». Se le cose continueranno a girare bene, Justin H. Min non si limiterà a essere la nuova superstar rubacuori di serie A. Ci troveremo di fronte a un uomo che ha potuto preparare la propria ascesa in un modo mai visto.

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T-shirt e cintura vintage, camicia Polo Ralph Lauren, pantaloni Diesel, orologio G-Shock, collana in argento Martine Ali, collana rossa Heaven by Marc Jacobs

A Cerritos, un sobborgo fortemente asiatico di Los Angeles, Min ha avuto la tipica educazione asiatica americana. I suoi genitori sono emigrati dalla Corea del Sud e una volta arrivati negli Stati Uniti, il padre ha lavorato per un giornale coreano locale e la madre ha aperto una lavanderia a secco. «Ricordo solo che i miei genitori lavoravano tutto il giorno», dice. «È stata dura». La nonna di Min viveva con la famiglia e ha stimolato la sua passione per la narrazione: «A tavola ci deliziava con alcune storie incredibilmente commoventi e animate sulla fuga dalla Corea del Nord e l’esperienza della guerra di Corea. Ne ero estasiato». A differenza di molti asiatici americani, Min non è cresciuto con la sensazione di appartenere a una minoranza. «Frequentavo una scuola prevalentemente asiatica e coreana», precisa Min. «La domenica andavo in una chiesa coreana. Ero circondato da persone della mia stessa cultura». A scuola, i ragazzi bianchi «erano quelli che cercavano di integrarsi e provavano a mangiare più cibo coreano». Alla fine «non mi sono mai sentito frustrato o insicuro sulla mia identità e non ho mai avuto problemi di comunicazione e linguaggio». All’età di circa 25 anni, Min ha sentito la vocazione per la recitazione e un’altra solida comunità asiatica è stata pronta ad aiutarlo a trovare la strada giusta. In quel periodo c’è stato il fortuito incontro con il team della Wong Fu Productions, la casa di produzione asiatico-americana che ha contribuito al lancio di Randall Park e Harry Shum Jr. «Ho realizzato lo spot per un bidone della spazzatura», ricorda Min con un sorriso. Si trattava di uno sketch comico, pagato da un’azienda di bidoni, che ha raccolto milioni di visualizzazioni su YouTube e Facebook. Un successo inatteso che ha aiutato Min a trovare un manager.

Giacca Saint Laurent by Anthony Vaccarello, T-shirt Aries, pantaloni Versace, sneakers Kiko Kostadinov x Asics, cintura vintage, collana Beepy Bella, orologio e anello Cartier, bracciale vintage
Tank top Calvin Klein Underwear, pantaloni in denim Louis Vuitton, collana Cartier, cintura Anderson’s

Il significato profondo di quell’opportunità non gli è certo sfuggito. «Sembra una piccola cosa», osserva Min, «ma fino ad allora non ci consideravano nemmeno all’altezza di essere i protagonisti di una pubblicità per i bidoni della spazzatura. Era essenziale trovare spazio, sperimentare, metterci alla prova e mostrare al mondo cosa possiamo fare. Dovevamo offrire l’opportunità alle persone di vederci al di fuori degli spazi riservati agli asiatici».

Nel tempo, la sicurezza che Min ha acquisito durante il periodo di formazione e delle prime esperienze artistiche in ambienti a guida asiatica si è trasferita nel suo lavoro a Hollywood. «Quando sono entrato nel tempio dell’industria dell’intrattenimento e mi sono reso conto che era dominata da una maggioranza bianca, mi sono abituato a tenere la testa bassa, a fare il mio lavoro e a non creare problemi. Nessuno metteva in discussione lo stato delle cose», dice Min. «Appena ho iniziato a parlare e a esprimere il mio punto di vista, per gli altri è stato uno shock». 

Dopo la prima stagione della serie The Umbrella Academy, ha sollevato alcuni dubbi con i produttori su come si stava sviluppando il suo personaggio. «C’è la tendenza in molte delle sceneggiature che leggo a descrivere i personaggi asiatici americani come modelli di perfezione», spiega. «Non hanno difetti. Sembra quasi un eccesso di zelo nel compensare tutte le precedenti rappresentazioni negative degli asiatici sullo schermo. Come attore, non sono profili interessanti. Vuoi lavorare su caratterizzazioni realistiche con cui è possibile stabilire un confronto. Siamo tutti confusi e a pezzi». 

Quegli appunti, dice l’attore, sono stati produttivi e accolti in modo costruttivo proprio come è accaduto l’anno seguente quando, al culmine delle proteste per la morte di George Floyd, Min ha inviato un’e-mail alla produzione dello show. «Abbiamo un cast diversificato, che è davvero, davvero fantastico, ma dietro la macchina da presa possiamo fare ancora di più in nome della diversità», ricorda di avere scritto. Lo scorso febbraio, quando i componenti della serie si sono riuniti per le riprese della terza stagione,

T-shirt vintage, felpa Champion, pantaloni Kidill, cintura Artemas Quibble, occhiali da sole Jacques Marie Mage, orologio Tag Heuer

Min ha constatato che la troupe era la più varia con cui avesse mai lavorato.

Il gesto è stato sottile, ma notato dai colleghi a partire da Elliot Page, uno dei co-protagonisti di The Umbrella Academy. «Ovviamente, vorrei che vivessimo in un periodo in cui non fosse necessario trovarsi in una simile situazione», mi ha riferito Page via e-mail. «Eppure, è stato un gesto ammirevole, perché parlare non è facile. È un riflesso della sincerità, del coraggio e della genuinità dei suoi sentimenti».

Se l’obiettivo di Min è finalizzato a esplorare l’identità di un americano asiatico sullo schermo, allora il film After Yang è un trampolino di lancio perfetto per la prossima fase della sua carriera. Scritto e diretto dall’autore indie Kogonada, nato in Corea del Sud, è un racconto asciutto e molto toccante ambientato in un eventuale prossimo futuro. Min interpreta Yang, un androide acquistato da una famiglia per aiutare la loro figlia adottiva a crescere e a mantenere il legame con la sua cultura cinese d’origine. Il film esplora l’universo che tanto affascina Min e si pone le stesse domande di identità. In una scena, un personaggio chiede letteralmente: «Cosa rende qualcuno un asiatico?»

Il film e l’interpretazione sono splendidi, anche se durante la visione sono stato infastidito da un piccolo errore: la pronuncia del nome Yang. Potrei considerarlo un cavillo, ma anche io mi chiamo Yang e veniva detto in modo sbagliato. La pronuncia corretta è “yahng”, quasi come il contrario di old che in inglese significa vecchio, mentre nel film e, a quanto pare, ovunque nell’emisfero occidentale sembra fare rima con “gang”. Min ha dato, però, una spiegazione alla storpiatura del nome ritenendola una decisione attentamente ponderata. 

Giacca e pantaloni  Prada, camicia Heaven by Marc Jacobs, cintura Artemas Quibble, collana Beepy Bella

«Kogonada e io abbiamo parlato a lungo al riguardo», sottolinea Min. «Dovevamo usare la versione reale o la pronuncia americanizzata? Abbiamo deciso che all’interno della storia era più coerente sentire questi genitori occidentali pronunciare male un nome che avevano visto scritto come y-a-n-g. Non avrebbero fatto alcuno sforzo per capire se lo stavano pronunciando correttamente».

Il regista spiega che Yang, con il suo nome storpiato, «rappresenta la situazione della comunità asiatica negli Stati Uniti», una potente metafora sulla ricerca di identità e appartenenza di ogni asiatico americano costretto a vivere tra due diverse culture e comunità. «Il suo viaggio è il mio viaggio», aggiunge Min su Yang, «e credo sia simile a quello di tutti noi asiatici in America. Sono cresciuto parlando il coreano, mangiando cibo asiatico e sono andato ogni sabato alla scuola coreana. Questo mi rende coreano? Non lo so. È un dilemma con cui mi confronto continuamente. Voglio dire, sembro coreano, sembro asiatico, ma è questo a rendermi tale? Non so se arriverò a trovare una risposta definitiva, ma cercarne una fa parte del divertimento e del viaggio di ricerca che sta alla base di tutto».

Sulla parete accanto al proprio letto, appesa a una striscia di nastro adesivo blu, Min ha messo in bella vista una ruota delle emozioni. È un grafico a torta con dozzine di segmenti etichettati con i nomi che coprono l’intera gamma dello spettro emotivo: da “Ispirato” e “Insicuro” a “Impotente” e “Sereno”. Ha iniziato a usare la ruota un paio di anni fa su suggerimento del suo terapeuta, convinto dell’utilità per il nostro equilibrio psichico di dare un nome ai sentimenti. Di recente, Min ha saputo portare l’esercizio anche oltre.

«Sono arrivato al punto in cui oltre a riconoscere tutte le emozioni della ruota, posso permettermi di provarne l’intensità e poi liberarle», dice Min. «Prima, a causa della mia natura estremamente razionale, tendevo a individuare un sentimento e mi limitavo a scriverne il nome spiegando perché mi sentivo in quel modo. Poi ho iniziato a impegnarmi seriamente in un altro tipo di pratica: “Ok, una volta che identifico un’emozione, non devo cercare di razionalizzare la mia via d’uscita da quel tipo di percezione. Devo imparare a sentirla e basta”».

L’attore rivolge al proprio lavoro la stessa minuziosa cura. La cosa che ama fare, ultimamente, è osservare le tecniche espressive adottate da artisti di altri settori per trovare il modo di applicarle alla recitazione. «La scrittrice Lydia Davis, per esempio, è nota perché alcune delle sue storie sono lunghe tre frasi», osserva. «E sono così potenti». Ricorda di aver guardato in religioso silenzio l’impegno di Kogonada mentre rifiniva le scene di After Yang in sala di montaggio. «Continuava a tagliare, tagliare e tagliare. Perfino dopo la prima a Cannes, ha continuato a limare il film».

Min desidera avvicinarsi a quel tipo di perfezione e a infondere alle sue performance una qualità simile. «È molto meglio sottrarre, lasciare più mistero», ragiona. Tutto ciò che fa, ogni ruolo, emozione o libro di auto-aiuto, è al servizio di un’idea: acquistare sicurezza in sé stesso e riconoscere la propria identità. Solo così gli sarà più facile dare credibilità a un personaggio. Dopo avere osservato lo stile di Colin Farrell sul set di After Yang, ha imparato cosa distingue le vere star del cinema: i particolari, in apparenza impercettibili e impalpabili, come il movimento del sopracciglio o un colpetto del dito. È un livello a cui si sta avvicinando ogni giorno di più. «Non ho bisogno di strafare», conclude. «Solo così lo spettatore può proiettare su di me ciò che vuole». 

PRODUCTION CREDITS:
Photographs by Yoshiyuki Matsumura
Styled by Jon Tietz
Hair by Hee Soo Kwon using Davine
Tailoring by Suzi Besik and Alvard Bazikyan at Susie’s Custom Design inc.
Production by Seduko Productions
Prop Styling by Matt Sokoler