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Апрель
2022

Mantova, Pif e quelle vite da precari: «Oggi siamo ridotti così, a invidiare Fantozzi»

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MANTOVA. «Per anni Fantozzi ha rappresentato l’ultima ruota del carro nel mondo del lavoro, oggi avercelo un lavoro come quello di Fantozzi... oggi un ragazzo se lo sogna». L’amarezza è la stessa che il suo film ti lascia addosso insieme alla consapevolezza che solo continuando ad alzare veli forse «la prossima generazione non si girerà verso di noi dicendoci “siamo in questa situazione perché voi siete rimasti a guardare”». Parlare con Piefrancesco Diliberto, ovvero Pif, di precariato e solitudine in un mondo sempre più dominato da algoritmi e tecnologie in nome del business, ha lo stesso sapore agrodolce della visione della sua ultima pellicola. Di “E noi come stronzi rimanemmo a guardare” che sarà al centro dell’evento organizzato stasera dalla Cgil al cinema Ariston: alle 21 proiezione gratuita aperta a tutti (fino ad esaurimento dei posti) e a seguire incontro con il regista-attore intervistato dal segretario generale Daniele Soffiati e da Elena Turchi e Gloria Pavesi del sindacato dei precari Nidil.

Nel film le storture del mondo del lavoro sono quelle della non-vita dei rider, dei 50enni espulsi dalle aziende che si ritrovano con professionalità non più spendibili, dei docenti universitari a contratto che per arrotondare rinnegano se stessi, degli «sfigati come noi» che accettano di diventare ologrammi-schiavi: a parte il lavoro da ologramma che ancora non c’è, il futuro che il film prospetta non è in gran parte già qui?

«Il film l’abbiamo scritto prima della pandemia e ipotizzavamo un futuro fra 30/40 anni, ma il Covid ha accelerato tutto. Molte cose già c’erano prima e altre sono arrivate con il Covid come ad esempio la solitudine del protagonista. È stato un acceleratore impressionante di tante cose, pensa allo smart working e alle riunioni online: si potevano fare anche prima, ma ora sono diventate strutturali. La tecnologia durante la pandemia ci ha permesso di metterci in contatto con il mondo, ma quando è finito il lockdown tutti non vedevamo l’ora di berci una birra con un amico. Però credo che al contempo il Covid ci abbia anche permesso di capire l’importanza del lavoro dei rider che facevano consegne senza mascherina e si ammalavano. Mi hanno raccontato di essersi resi conto meglio delle loro condizioni di lavoro proprio in quel periodo, creando quell’unione che prima mancava».

La figura del rider con tempi di vita dettati dagli algoritmi, riprodotta così realisticamente nel film, è l’emblema della precarietà e di nuove forme di sfruttamento consentite dalle tecnologie...

«La cosa incredibile è che sono condizioni di lavoro palesi, ma noi festeggiamo se una società di delivery concede loro l’assicurazione quando dovrebbe essere l’Abc di un contratto, cose che la nostra generazione dava per scontate. Io quando ho finito gli studi pensavo che la situazione per noi fosse difficile, ma oggi è peggio. È stata una ragazza a farmi osservare durante una proiezione del film che per anni Fantozzi era l’ultima ruota del carro, ma lui almeno aveva tutele che oggi mancano».

Come lei diceva all’inizio, la solitudine del protagonista Arturo (interpretato da Fabio De Luigi) ha precorso i tempi Covid, ma in più nel film non c’è anche un mettere in guardia da modelli di vita che ci vengono proposti dove il bisogno dell’altro diventa solo ricerca di conferme, segno di un’insicurezza e incapacità di confronto sempre più diffuse?

«Gli ologrammi nel film rappresentano forme di amicizia false e inquietanti, come quando scriviamo sui social per piacere a tutti: ti dicono cosa vuoi sentirti dire, quando un amico dovrebbe essere diverso da te, non darti sempre ragione, il vero amico è quello che ti da anche contro. Il fatto è che è tutta un’illusione e si va solo a peggiorare: ci propongono un mondo parallelo dove vivere ed è inquietante perché queste cose non sono pensate per l’uomo ma solo per il business e far soldi. C’è una frase del film che dice “Se il prodotto è gratis allora sei tu il prodotto”. Questo mi fa paura, ma io conto sul fatto che la voglia di contatto, di una birra tra amici, resti. Pensiamo ai bambini che sono la parte primordiale di noi e sono molto fisici, infatti loro e i ragazzi sono quelli che hanno sofferto di più il lockdown».

Anche la scena dell’asta al ribasso per un posto su un volo “low low cost”, dove mezzo viaggio è seduto e mezzo in piedi, non è così lontana da quello che accade oggi...

«Oggi è tutto al ribasso, ma questa cosa non può funzionare, non possiamo accettarla perché la vita è una sola. La “low low cost” è simbolica, all’inizio tagliavano fronzoli che a te non servivano e il viaggio costava meno, ora tagliano sull’indispensabile ed è una gara a guadagnare su tutto. Questa corsa al ribasso è pericolosa: siamo solo dei polli da spennare ed è una deriva che non può che degenerare allargandosi ad esempio al mondo della sanità o della scuola».

Tutta colpa della tecnologia?

«L’uso delle tecnologie non è un crimine, ma lo hanno fatto diventare una cosa sporca. Ci sono mille situazioni in cui la tecnologia ha migliorato le cose. La questione è che le grandi aziende sfruttano le nostre debolezze e il nostro essere così passivi: accade anche nello smart working con molti che si trovano a lavorare di più perché non c’è più separazione con la vita privata».

Il film punta anche il dito contro la mancanza di valori come nelle scene di gente che fa festa travestita da nazisti piuttosto che da prelati?

«Era per far capire che non possiamo continuare a far finta di nulla, a non scandalizzarci davanti a cosa succede in questo Paese, a partire dal non aver mai fatto i conti con il fascismo. Nella settimana di presentazione del film al festival di Roma c’è stato l’attacco alla sede della Cgil: certo Mussolini non tornerà in piazza Venezia, ma prima o poi ci sarà chi troverà divertente ballare su “Faccetta nera” per ignoranza. Ecco, se qualcuno si dichiara un fascista del nuovo millennio allora io sono un partigiano del nuovo millennio».

L’incontro di stasera è organizzato dalla Cgil: che ruolo può avere il sindacato per arginare tutto questo?

«I sindacati restano un punto fermo, con un futuro difficile perché questa politica del lavoro punta a creare divisioni e infatti i rider hanno iniziato ad ottenere qualcosa quando si sono uniti. Mi fa piacere che il film giri con la Cgil, che ci si ritrovi in presenza per discutere di questi temi».

E il ruolo di denuncia del cinema?

«L’ambizione di ogni artista è quella di cambiare il mondo, anche se poi non sarà così. Noi abbiamo previsto un futuro che in parte è già qui, ma io spero non sia definitivo: che la prossima generazione non si giri verso di noi chiedendoci un giorno perché siamo rimasti a guardare».

Come stronzi, appunto.




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