Inno di Mameli nelle scuole? Intanto però la cultura musicale non esiste
Ho ascoltato con interesse l’ultima uscita pubblica del ministro Bianchi in materia scolastico-musicale, nella quale proponeva, in una stessa data e in uno stesso orario, di far cantare in coro a tutte le classi di tutte le scuole italiane l’inno di Mameli: che bella iniziativa, ho pensato, ma la sostanza? La sostanza è diversa, la sostanza, nella scuola pubblica italiana, da tempo latita: a partire dalle domande del concorso a cattedra per l’insegnamento di musica nella scuola secondaria di primo grado. Si cita testualmente: “Progetta un’unità didattica formativa che faccia provare gli alunni di una classe prima a leggere nel setticlavio secondo la notazione antica adiastematica”.
Dapprima, pensando si trattasse di uno scherzo, di una specie di fake, ho creduto mancasse la chiosa “Come fosse Antani”: impossibile, ho pensato io come qualsiasi altro addetto ai lavori, una tale supercazzola in sede concorsuale. Eppure, con mio sconcerto e profondo rammarico, indagando un pochino ho scoperto si trattasse di pura realtà. A parte infatti l’evidente sproporzione tra il contesto di una classe prima della scuola secondaria di primo grado e lo studio del setticlavio (comprendente, oltre alle chiavi di volino e basso, anche quelle di soprano, mezzosoprano, contralto, tenore e baritono), a parte dunque l’insensatezza di una tale proposta formativa nel contesto di una scuola media, quel che fa specie è ciò che segue poco dopo sostanziandosi nelle parole “secondo la notazione antica adiastematica”.
Lo sa il ministero dell’Istruzione che la notazione adiastematica è quella precedente, e non di poco, l’uso del rigo musicale? Lo sa dunque che quel tipo di notazione non ha niente a che fare con qualsiasi chiave e men che meno con tutte e sette le chiavi comprese nel cosiddetto setticlavio? E allora cosa vogliamo fare? Non sarebbe forse il caso che qualcuno dal ministero dell’Istruzione, mostrando un minimo di rispetto per i futuri professionisti dell’insegnamento, per i nostri laureati, per i candidati a un concorso a cattedra, provi a porgere, a nome dell’intero ministero, le più sentite scuse per strafalcioni del genere?
Non è infatti, come se già da sola non bastasse, l’unica domanda priva di alcun fondamento storico-scientifico: negli ultimi mesi sono state una moltitudine le segnalazioni da parte dei candidati delle più svariate classi concorsuali di altrettanti strafalcioni tra le domande o, mutatis mutandis, dell’inesatta corrispondenza tra le domande poste e le relative risposte indicate come corrette dal ministero stesso.
Ma andiamo oltre: lo sa il ministro Bianchi che l’Italia è il paese in cui la musica non fa cultura, in cui la cultura musicale a livello scolastico non esiste? Esiste quella della arti visive, della letteratura, non certo quella musicale che, di regola, non passa attraverso l’intonazione dell’inno di Mameli, ma lo studio della sua storia, delle sue forme, dei suoi stili in un paese, il nostro, che ha avuto un ruolo fondamentale nella formazione del linguaggio musicale oggi in uso in ogni angolo del globo. Lo abbiamo detto, scritto, ribadito decine e decine di volte senza mai ricevere una sia pur minima considerazione: per questo proposte che potrebbero anche risultare simpatiche non lo sono affatto se ancora oggi non viene neanche lontanamente ventilata l’ipotesi di un’azione di vera e propria cultura musicale scolastica.
Nel paese dell’Opera i ragazzi non hanno la minima idea di chi siano Giuseppe Verdi, Gioachino Rossini, Giacomo Puccini, e a prescindere dall’opera lirica non è pensabile che un’intera popolazione europea non abbia la minima conoscenza dell’inestimabile repertorio musicale occidentale, del suo glorioso passato e dei suoi nuovi linguaggi. Lo si vuol capire una volta per tutte che senza cultura musicale l’intero circuito teatrale continuerà ancora a soffrire enormi deficit di bilancio come già da consolidata prassi pluridecennale? Perché mai i giovani, la fascia più dinamica di qualsiasi società, dovrebbero recarsi a un concerto in un qualsiasi teatro o auditorium se mai adeguatamente sensibilizzati verso un ascolto musicale consapevole?
Lo studio della storia dell’arte svolge, nel suo settore di riferimento, esattamente questa funzione a livello di fruizione e frequentazione degli spazi adibiti alla divulgazione delle arti visive: perché non iniziare ad adottare lo stesso modello economico-culturale per la musica? Lo si fa in Germania e in tutti i paesi avanzati, perché non iniziare a farlo anche in Italia? Esiste, oltre a una petizione lanciata dal gruppo Musicologi Italiani, una proposta di legge già depositata in parlamento dal gennaio del 2019, la n. 1553, per l’inserimento di storia della musica nei nostri istituti liceali: attende solo di essere riesumata e portata avanti nell’iter parlamentare, cosa si sta aspettando?
Infine: lo sa il ministro Bianchi che ancora oggi agli storici della musica viene ostacolato l’accesso all’insegnamento della propria materia nei licei musicali mentre possono, al tempo stesso, insegnarla nelle università? Ancora: lo sa che storia dell’arte viene studiata per due ore settimanali nei licei musicali mentre storia della musica, anch’essa presente in questi licei per due ore a settimana, non compare nei programmi di studio dei licei artistici? Perché questa disparità, tutta italiana, tra la storia delle arti visive, giustamente onnipresente nei programmi liceali, e quella relativa all’arte dei suoni? È in grado il Ministero dell’Istruzione di fornire risposte adeguate, argomentate, puntuali?
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