Quaranta anni fa moriva Anita Pittoni, la donna che cuciva le memorie del Novecento triestino
L’11 maggio del 1982 morì in solitudine in ospedale la scrittrice, editrice, artigiana e artista che interpretò la creatività di un’epoca e l’indipendenza e intraprendenza femminile
TRIESTE Quarant'anni fa moriva Anita Pittoni, artista generosa e versatile, donna di temperamento se nel dopoguerra era riuscita a fare della sua casa uno dei punti d'incontro della cultura triestina. I denari però erano pochi e spediva gli inviti alle sue serate su semplice carta da impacco, quella che una volta serviva ad avvolgere le verdure. Malgrado ciò, dopo qualche anno, in quella sua casa-laboratorio nascevano le Edizioni dello Zibaldone.
Era il 1949 e da allora Saba e Giotti, Miniussi e Budigna, Kezich e Grisancich, Todeschini e Giani Stuparich, da qualche anno suo compagno di vita, pubblicarono con quell'etichetta non poche delle loro opere. Lina Galli curò la biografia di Svevo attraverso il ricordo della moglie, mentre venivano rilanciate in una veste rinnovata opere di importanza storica, come quelle di Giovanni Guglielmo Sartorio, di Antonio de’ Giuliani o di Enea Silvio Piccolomini. Ugo Pierri, in quell'atmosfera carica di entusiasmo, allestiva le sue prime mostre.
Eppure Anita aveva avuto un percorso di formazione di tutt'altra natura. Nata nel 1901 da una famiglia del ceto medio, nipote per parte di padre di Valentino Pittoni, storico leader socialista triestino, non le fu concesso di frequentare l'università, perché già due fratelli avevano avuto quest'opportunità, intaccando così i risparmi familiari. A lei, femmina, non restava che aiutare la madre, che per arrivare alla fine del mese doveva comunque lavorare pomeriggi interi sulla sua Singer. E allora imparò a cucire, ma a modo suo. In una soffitta riuscì a mettere in pratica ciò che il Liceo femminile, la madre e la fantasia le avevano insegnato, e cioè a creare con aghi e uncinetto tessuti, arazzi, pannelli che nel giro di pochi anni valicarono lo stretto circuito della clientela locale, per approdare alle grandi mostre universali, a Parigi, Berlino, Buenos Aires, New York. Altre due artiste triestine sue amiche, le sorelle Wulz, fotografe, la aiutavano a comporre i cataloghi.
Si era ben inserita negli ambienti culturali internazionali, tanto da venir invitata con i suoi lavori di artigianato artistico alla Biennale di Venezia nel 1934 e nel 1942. Realizzava costumi per registi del calibro di Anton Giulio Bragaglia, dirigeva la rivista della Borgosesia "LIL", su cui scrisse numerosi articoli, veniva chiamata a collaborare con gli architetti più prestigiosi del tempo, come Belgioioso, Peressutti, Rogers e tanti altri. Ma la guerra aveva messo fine a questa attività artigianale che con tessuti intrecciati di canapa, lane grezze e morbidi lini, l’aveva vista anticipare un’idea di creatività sartoriale moderna, seppur adatta a tempi più prodighi, quando avrebbe potuto raccogliere soddisfazioni anche economiche. Nondimeno procedeva imperterrita verso altre mete: aveva scritto, e continuava a farlo, poesie.
La prima silloge, “Fèrmite con mi”, composta tra il 1936 e il 1959, pubblicata nel 1962, fin dal titolo mette in risalto il bisogno di attenzione espresso dalla giovane donna: è un invito a trattenersi presso di lei, rivolto a qualcuno caro all’io poetante. La raccolta si snoda in forma autobiografica, e prende avvio dai ricordi d’infanzia finendo per diventare il racconto di una vita in cui avrebbe potuto riconoscersi un’intera generazione di donne. Sono storie di crisi di identità e di successivi riadattamenti, proprie di chi dal chiuso di appartamenti, collegi, cortili è uscita a incontrare per la prima volta gli infiniti aspetti della realtà.
Le memorie emergono dagli odori e sapori di una casa in cui ci si voleva bene, anche se su di essa incombeva funesto l’incubo delle difficoltà economiche. Anita registra subito la sua tendenza a trovar conforto nella sua natura femminile, che sente in armonia con il respiro del mondo. La cifra stilistica che sarà sua è già qui evidente negli slanci verso l’evasione fantastica, la fiaba e il sogno. Né può tacere, naturalmente, la sua passione per Trieste: “El strighez”, una delle sue poesie più famose, la dice lunga sul legame profondo che la unisce alla sua città.
Nel 1950 pubblica “Le stagioni”, una specie di autoritratto–confessione in cui tornano i temi affrontati nelle prove giovanili e molte delle riflessioni presenti nel Diario. Ancora una volta la rispondenza con le tematiche femminili del Novecento è perfetta: entra nelle sue trame una soggettività che ascolta la memoria del corpo, deciso a far convogliare su di sé le attenzioni finora accordate ad altri strumenti percettivi, solitamente mentali. Anita mette così in atto una strategia narrativa che colloca il suo vissuto in una rete di frammenti apparentemente discontinui, schegge di saperi speculativi la cui logica ha saputo infrangere. Ricostruisce così un sé che mostra anche le sue zone fragili, governate da una mente che sa crearsi raccordi prospettici inediti.
Dopo la morte di Stuparich, di molti amici, e la perdita finanche della casa di via Cassa di Risparmio 1, dove era nato lo Zibaldone, giunge inesorabile il declino. Le istituzioni non la sostengono più e la vecchia signora, irata col mondo che la stava accantonando, non riesce più a riprendersi: disperse nei traslochi le sue carte, si spegne in solitudine in ospedale, al reparto Lungodegenti, l’11 maggio del 1982. Ricordiamola.