Lì alla Sorgente di Trieste dove Rosignano tirava tardi schizzando disegni sui tovaglioli di carta
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Mi era mancato tutto, soprattutto le scene dei suoi avventori di età più che avanzata
TRIESTE C’erano tre ricordi nitidi che avevo conservato per non dimenticare la Trattoria Alla Sorgente: gli odori, i sapori e Mirsada, l’oste di casa. Quando tornai a Trieste, dopo un anno di lavoro all’estero, la prima cosa che feci fu di ricercare quella strada, piccola trasversale di Via Carducci, che portava là.
Ricordo esattamente come il profumo dei fiori che invadevano il suo giardino si amalgamava perfettamente all’odore delle sue famose seppie in umido. Mentre mi avvicinavo ammaliata verso quel piccolo antro di paradiso pieno di ortensie e gelsomini che tanto mi era mancato, sapevo a priori che avrei ritrovato quell’immagine di vita e abbondanza.
Quando oltrepassai la soglia d’entrata, la vidi. Eccola là l’idea di casa, il sapore della semplicità. Il posto in cui avevo imparato i modi di dire in triestino e che la tenerezza si confonde nel vino e nei gesti. La cucina piccolissima faceva ancora tutt’uno con il banco.
Sopra, piatti colorati, fiori di campo e gingilli appesi di ogni genere mi diedero la conferma che “i strazariol” erano ancora i migliori amici di Mirsada. Nulla era cambiato, non era diventato sterile, prevedibile o dimenticabile. Ogni cosa era pregna di dettaglio.
Notai che appesi alle pareti c’erano i quadri di Rosignano e Pisani; scoprii solo poi che erano stati i suoi più fedeli clienti, nei racconti che condivideva la sera, quando il lavoro finiva.
Rosignano, dopo la chiusura del Re di Coppe, storica osteria che lo accoglieva insieme ad altri artisti, si era “trasferito” là, in quell’angolo di via della Sorgente, e obbligava Mirsada a restare aperta fino alle tre di mattina, affinché lui potesse finire il suo terrano e buttare giù qualche schizzo sulle tovagliette di carta sgualcita, pregne di olio di frittura e schizzi di vino.
Ma la Trattoria alla Sorgente non è nulla solo con i suoi gingilli, l’odore di frizzantino che trasuda dal banco e i fiori di campo portati dalle istriane di passaggio. L’anima pulsante di ogni gesto e di ogni incontro, per tutti, è Mirsada.
Calda e abbondante nella sua veste bianca da cuoca, con le mani ingiallite dal fumo e dalle migliaia di pedoci lavati, quel giorno mi accolse con il suo sorriso da ragazzina e un abbraccio che sapeva di mare. Prima che potessi aprire bocca per salutarla, mi rifilò in mano un calice di prosecco. “Tien picia mia, ‘ndemo a beverse un frizzantin qua de fora, nel mio giardin, cussì te me conti tuto”. Una sigaretta dietro l’altra, piccoli sorsi di uva che diventava ballerina tra le labbra e uno sguardo di madre dietro i suoi piccoli occhi verdi. Finalmente ero ritornata a casa, pensai.
Mi era mancato tutto, soprattutto le scene dei suoi avventori di età più che avanzata che quando lei smetteva di dar loro da bere, si mettevano in fila, davanti alla finestra esterna che dava sulla cucina, e insieme in coro intonavano la canzone “Tu sei romantica”, sostituendo “romantica” con “marantiga”. Tutti, là fuori, aspettavano quel momento quasi ogni giorno sapendo che alla fine Mirsada cedeva, allungava ancora un mezzo di Terrano e un mezzo di Malvasia e gli urlava di andarsene, ridendo. “Te vedi picia” mi diceva sorniona “anche mi son come Toso, go sempre le mie spugne”.
Un piccolo palcoscenico di ritorni e fratture, di crostini col baccalà mantecato, detto il più buono di tutta Trieste, di canti nostalgici e di afflussi intensi tra giovani e vecchi che tornavano sempre lì, da Mirsada, era l’idea di casa che mi aveva fatto tornare. “Te son la mia picia” le diceva Rosignano “ti te sta continuando qualcossa che sento dentro”.
E “picia” sembrava veramente, col suo caschetto biondissimo e il sorriso di giovane madre. Eppure, nelle braccia, quando abbracciava, aveva la forza di una montagna, la rudezza della terra d’Istria, sua patria, e un’instancabile voglia di accogliere. “Ela xe la mama de tuti” diceva Sergio, soprannominato Cipollino per le sue guance tonde e rossastre, fedelissimo avventore di osterie e curatore accanito di chiese e rosari. Si faceva il segno della croce tutte le volte che la sentiva bestemmiare dietro ai fuochi, tra padelle, pentole e pedoci che gestiva tutte in una volta.
Ma anche lui, alla fine, tornava sempre, soprattutto il sabato, quando Mirsada, nonostante il locale pieno e tutti da servire, trovava sempre il modo e il tempo di preparargli la sua solita confezione piena di baccalà, “cussì te ga de magnar anche per domani che xe domenica e mi son chiusa!”. Ad oggi è ancora tutto così, intatto e genuino, con la sola differenza che alcune delle sue “spugne” non ci sono più, tra cui Rosignano che le ha lasciato qualche dipinto.
Lei li conserva con gelosia, non li fa toccare a nessuno e quando parla di lui deve bere un frizzantino velocemente, per rompere in fretta la nostalgia imprevista che attorciglia la gola. Poi accende una sigaretta, si siede sullo sgabello di fuori e chiude le braccia sul suo petto materno guardando quale tavolo è ancora da sistemare, se c’è qualcuno da servire, tra ortensie, gelsomini e fiori di campo da curare.